LA FUGA DI ULISSE (su “Suburra” di Stefano Sollima)

“Roma non fu fatta di certo in un solo giorno”. Ma ciò che questo film lascia intendere è che basti un solo giorno, anzi una sola lugubre notte, per farla crollare in un informe cumulo di macerie. Si badi bene: Suburra, il film di cui stiamo parlando oggi, non può e non deve essere un argomento in più che possa corroborare le già fragili e demagogiche tesi di qualche partituccio nordista che inveisce quotidianamente contro Roma ladrona. Perché è un film che narra del tragico e indecoroso tonfo non tanto di Roma o dell’Italia tutta, ma dell’intero Occidente. Chiunque si voglia chiamare fuori dal turbinio di sensazioni, casuali coinvolgimenti, disonesti sgambetti, furie omicide e represse pulsioni animalesche di cui il film è pregno, lo faccia pure. Ma si ricordi che non ci si può chiamare fuori dalla squallida involuzione della società (in)civile, cui tutti apparteniamo, che questo film ci sbatte in faccia. Tonfo, fragoroso, si diceva. Che tuttavia non provoca, in chi vi assiste, biasimi di alcun genere. Ma tanta, troppa compassione.

Trama: una notte di novembre, una settimana circa prima delle dimissioni di papa Benedetto XVI e di Silvio Berlusconi, un politico corrotto si intrattiene con due escort, consumando una notte di sesso e droghe. Ma la morte di una delle due e il conseguente tentativo di celare l’accaduto da parte del politico, provocherà una spirale di violenza che coinvolgerà tutta la malavita romana e i suoi interessi. Suburra è un film spudoratamente storico, rivestito da quella salvifica membrana protettiva e permissiva che si chiama cinema di genere. Difatti, diversamente da quanto faccia un pur magnifico film come lo spagnolo La ballata dell’amore e dell’odio, in cui in simile fattura eventi realmente accaduti e storie romanzate risultano solute, qui il regista Stefano Sollima elabora un processo inverso: protagonista assoluta, a nostro avviso, è la storia ufficiale, quella italiana del novembre del 2011. Essa, che sembra fare da semplice cornice sussumente, in realtà condiziona incontrovertibilmente la sorte di tutti i protagonisti che un minimo ne sono all’interno. Non è un caso, infatti, che i più disgraziati e dannati del film, Viola “la tossica” e Sebastiano “il pr”, siano gli unici a farla franca, perché personaggi astorici, perché altrimenti facilmente dimenticabili (in questo ci troviamo invece sulla stessa scia de La ballata dell’amore e dell’odio, assistendo anche qui ad una furente ma ingloriosa rivalsa degli ultimi della classe). La storia ingabbia, assoggetta, devia il naturale corso degli eventi dei protagonisti, influenzandone gli esiti inevitabilmente apocalittici: il papa rinuncia al soglio pontificio e per tale motivo un cardinale è impossibilitato ad imbastire una trattativa con il “Samurai” che sembrava in dirittura d’arrivo; il governo Berlusconi frana e l’onorevole Malgradi vedrà sfumare il progetto che avrebbe cambiato il volto di Ostia, di tutta Roma e le sorti della sua opulenta fondazione. Ma Viola e Sebastiano non fanno parte di alcuna dinamica storica. Le loro personalità, dedotte dalla voce “anonimato”, evidenziano un cortocircuito narrativo che fa ergere i due personaggi a entità post-apocalittiche che non solo non fanno storia, ma la annichiliscono attraverso la cronaca nera. Come detto, tuttavia, la loro rappresenta una rivalsa ingloriosa (e non di certo manichea) che soddisfa semplicemente il fisiologico bisogno di capovolgere una comunque soterica dialettica schiavo-padrone, un’assodata gerarchia. Dopo… si prospetta il nulla!

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Ma Suburra non si ferma qui. Se sotto certi aspetti, appena esaminati, risulta un film titanico nell’approccio alla realtà che racconta, rivela altresì una natura intima nel delineare i tratti dei protagonisti. Tutti meritevoli di lode i personaggi scritturati, tutti caratterizzati da un impedente e rallentante complesso di inferiorità nei confronti dei predecessori o dei padri: come afferma Paola Casella (MyMovies) Suburra racconta <<le avventure di un gruppo di uomini cui viene continuamente ripetuto di non essere all’altezza del proprio genitore>>. La stessa scrittrice, tuttavia, taccerà questo film di incompiutezza. Noi azzarderemo invece un parallelismo con un’indagine filosofica sull’Occidente elaborata da un pensatore contemporaneo italiano, vale a dire Massimo Recalcati, per dimostrare come Suburra sia molto più di quanto dia a vedere la sua trama apparentemente trita e ritrita.

In uno dei suoi maggiori saggi, Cosa resta del padre?, lo psicoanalista Recalcati abbozza una prima teorizzazione del cosiddetto “complesso di Telemaco”. A suo avviso, all’approccio al padre da sempre sbraitato dagli altari dell’ignominioso Occidente, vale a dire quello dettato dal conflitto edipico, va affiancata una seconda tipologia di complesso, sempre di matrice classica. Essa fa riferimento, per l’appunto, al povero figlio di Ulisse, che aspetta per troppo tempo che una nave venga dal mare e gli riporti il padre che non ha mai conosciuto. Tutti, in quest’epoca di “evaporazione del padre” (come la definì Lacan), siamo un po’ come Telemaco: aspettiamo un segno da un orizzonte troppo lontano e muto; aspettiamo un cenno dal padre, sia esso biologico, sia esso civile o spirituale (l’immagine emblematica, a tal riguardo, è quella del frame della nostra copertina, in cui uno spaesato Elio Germano ricerca il padre tra le acque del Tevere). Dunque l’Occidente non guarda al padre solamente come ad un ostacolo al piacere incestuoso (Edipo) o all’autoaffermazione da incallito maschio alfa (di cui parla Freud in Totem e tabù), ma anche come ad un appiglio da ricercare, anche se invano, e a cui tendere. E il film mostra inquietanti esempi di tal genere. Se da una parte Sebastiano ha un rapporto nauseabondo col povero padre (troppo umile per entrare a far parte della sua viscida vita da comprimario sanguisuga della mondanità e che si toglierà la vita per i troppi debiti) e se “numero 8” sbrocca come un cavallo imbizzarrito ogni qual volta gli si nomini il padre (a detta di tutti, molto più competente e posato rispetto a lui), l’intera civiltà, dall’altra, assiste inerte all’imbiasimabile abiura dei nostri padri universali, rimpiangendoli. Di coloro insomma che, seppur nella più totale baraonda e con le dovute differenze, hanno per parecchio tempo saputo tenere a freno le derive apocalittiche. Nel film, queste figure paterne sono rappresentate dal “Samurai” in ambito malavitoso, dal papa in campo spirituale e da Berlusconi in quello civile. Esse scompaiono nella pioggia di un diluvio universale in cui Dio, questa volta, sembra non aver incaricato nessuno di preservare la specie (anche in questo caso, il padre non risponde). Suburra dunque non è un classico film di mafia. Protagonisti non sono il semplice sicario, il terribile killer, questa o quella vittima, ma protagonista è chi non si vede. Il papa e Berlusconi su tutti, i quali dettano i vettori per indirizzare un’intera civiltà, smorta e avvilita per la loro rinuncia. Ciò che a loro sopravvivrà, non importa. Non ci importa di papi che svenderanno in seguito la spiritualità a 50 centesimi, sulle figurine, in edicola e la concedono gratuitamente sui social networks; e non ci importa nemmeno del processo di privatizzazione dei servizi primari sbandierato da un premier che di sinistra ha solo il braccio sinistro. Non ci importa perché siamo già nell’apocalisse da un paio di anni. Tutto ci scorre addosso, come la pioggia incessante di Suburra.

C’è poi un piano politico cui rimanda il film. Alla luce di quanto detto sul “complesso di Telemaco”, lo stesso Recalcati, già parecchi anni fa, rimproverava tra le righe Berlusconi, indicandolo come il maggiore responsabile e fautore di un nuovo indirizzo esistenziale che tenga conto dell’assenza della figura paterna e pratichi una scissione tra libertà morale e responsabilità. Facendosi carico, egli stesso, di assurgere a figura paterna sostitutiva. E di questa scissione parla naturalmente il film, nella figura del parlamentare, ora discreto ed equilibrato, tra i banchi del Parlamento, ora erculeo e onnipotente, in preda a estasi orgiastiche, durante la notte. Un personaggio che ricorda il protagonista di American Psyco. Ma se in quel caso gli efferati omicidi erano dettati da una certosina e razionale elaborazione, anche senza assunzione di droghe, qui il peccato è indirizzato dalla condotta mondana, rivelandoci un personaggio in realtà debolissimo che si pavoneggia tra i fasti della politica ufficiale ma costretto a fare continuamente i conti con imprevisti contingenti. Il denominatore comune tra i due film è comunque la necessità di dover assecondare selvaggi istinti che il colletto bianco, di giorno, deve necessariamente sovrastrutturare. Il che fa dell’illuso onorevole il personaggio più disgraziato. Anche lui all’inseguimento di un padre (questa volta di partito) che, con una bellissima auto blu, nel concitato finale del film, sembra fuggire a gambe levate senza tuttavia designare un vero erede. Se 1894 anni prima, il più grande imperatore della storia dell’umanità, Traiano, designava un degno, anche se più moderato, continuatore della sua politica, vale a dire Adriano, la Roma caput mundi di adesso crolla perché senza alcun caput. Il vuoto!

Ma se sofisticamente dovessimo trovare dei difettucci in questo film, parleremmo senz’altro della prova non entusiasmante di Amendola, il quale, se non avesse proferito parola, avrebbe pure potuto ricevere un Oscar. Avremmo infatti preferito, al suo posto, un Fassari, comunque presente nel film, o un Zingaretti, volendo fantasticare (come ha ipotizzato l’esperto di noir Cortelletti). A livello stilistico, non ci sono falle evidenti. Il film ha un ottimo ritmo, un buon montaggio, cala di tono a dovere e si innalza quando è necessario (la scena dell’inseguimento all’interno del centro commerciale farebbe pensare infatti ad un involuzione della seconda parte del film verso l’americanata pura, ma da subito il film torna ad essere, cinematograficamente parlando, italiota).È forse, in certi frangenti, troppo a lungo sospeso, magniloquente e musicato,ma la colonna sonora, con la punta di diamante ravvisabile nel brano Outro, è davvero potente e gradevole. Unica recriminazione andrebbe fatta relativamente alla conduzione della camera da presa, troppo spesso a spalla, che sa molto di serie tv (ma perdoniamo Sollima, dal momento che la sua è una fallace deformazione professionale). Un plauso va invece al grande Favino, il quale sembra cambiare timbro vocale in ogni film (in questo caso citofonata ma calibratissima), dimostrando una sublime arte attoriale, e al giovane Borghi (che avevamo già conosciuto nell’intimo, toccante e spietato Non essere cattivo del grande Caligari), l’interprete del “numero 8”, ancora acerbo nella dizione ma supremo nel ruolo dello spietato e neonato boss.

In questa recensione abbiamo scomodato un po’ tutto e tutti, perché le pretese stesse del film erano alte. Ciò che tuttavia rimane indiscutibile è il senso di smarrimento che il finale incute. Chi lo ha definito un film troppo tetro, ha di certo colto il meglio. Perché, come è stato spesso ribadito in questa sede, solo realizzando un film privo di barlumi di luce e di ogni senso morale un regista concede la possibilità, allo spettatore, di redimersi. Di riplasmare il film, di renderlo altro da sé. E se le conclusioni tratte da Sollima non apportano alcuna speranza per le nuove generazioni, su cui il film sembra calcare pesantemente la mano, proprio noi giovani dobbiamo prefiggerci di tornare ai nostri padri e far capire loro che non tutto è perduto, affinché riprendano a guidarci. Per dimostrare a tutti che non siamo figli bastardi di un dio minore peraltro dimenticatosi di noi. Per risorgere dall’oblio storico e generazionale cui Viola e Sebastiano, giovani come noi, sembrano essere caduti, tentando invano e violentemente di ergersi contro i titani di sempre. Per tornare a Dio, ancor più che alla politica, restaurando il vecchio indirizzo morale. E se Ulisse non torna, be’… almeno ci abbiamo provato.

Gabriele Santoro

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RISCHIO RETROCESSIONE (su “Youth” di Paolo Sorrentino)

Youth. <<E ‘sti cazzi!>>, verrebbe da sbraitare. Perché seguendo una nota e mordace lezione di Enzo Castellari (autore di film cult poliziotteschi e western anni ’70 e ’80), il successo di un film parte già dalla reazione del pubblico al titolo. Se quest’ultimo viene accolto con un roboante <<Me’ coglioni!>>, allora vorrà dire che sarà gradito tanto da consentire una vasta fruizione del film. In caso contrario, be’… si vada alla reazione di cui sopra. E questa dialettica e romanesca corrispondenza verbale di un più o meno acuto gusto nella scelta del titolo sono lo specchio, alle volte, di un più o meno acuto gusto registico o addirittura filmico. Il buono, il brutto e il cattivo, per esempio, ha di certo un titolo impattante, maschio, ed è anche e sicuramente un capolavoro assoluto. Ma, oggigiorno, questa genuina tendenza al buon cinema italiano di genere, che vede nella scelta del titolo l’apogeo di una tanto conclamata (all’epoca) e salvifica artigianalità del mestierante chiamato regista, si è dissolta nel nome del cinema di serie A (o presunto tale), delle pretese massimaliste (sia registiche che di scrittura), dell’autorialità limata sino all’inverosimiglianza, affettata come un prosciutto crudo. Con cui imbottire smargiasse carriere da Oscar, per lo più. E tornando al film del giorno, vale a dire La giovinezza (così preferiamo chiamarlo, in quanto italofoni), il sintagma <<’Sti cazzi>> rivela una sconfessione totale dei casti dettami del cinema italiano di genere di quegli anni da parte degli autori contemporanei e ne rappresenta, in un certo qual senso, anche la morte.

Fatta questa premessa dai toni nostalgici, tra un giudizio estremo e l’altro (cioè tra il polpettone grossolanamente farcito e il diamante di preziosa fattura, tra <<’Sti cazzi>> e <<Me’ coglioni>> per intenderci), è opportuno per una volta elencare aspetti ora positivi ora negativi del nuovo film di Paolone Sorrentino. E non di certo per atteggiamento ignavo ci porremo in mezzo alla terribile contesa tra incondizionati detrattori e strenui difensori del regista napoletano, ma perché, avendo visto, rivisto, spolpato e rispolpato La giovinezza, vi abbiamo riscontrato sia chicche che rovinose cadute di stile. Partiamo dalla trama.

Due amici ormai anziani sono in vacanza in un centro delle Alpi. Uno è un ex compositore a cui degli emissari della regina Elisabetta chiedono invano di dirigere un concerto in onore del principe Filippo, l’altro è un regista ancora in attività alle prese con il finale della sua ultima fatica. Entrambi e in modo differente, dopo aver fatto conoscenza di decine di particolari personaggi, si rendono conto di quanto siano inadeguati alla società in cui sono costretti ormai a vivere. La giovinezza è il rifacimento più europeizzante, nonostante gli attori siano delle stelle di Hollywood, del patinatissimo La grande bellezza, non tanto per la presenza di una messa in scena più sobria (rimane, difatti, anche qui compiaciutamente magniloquente) ma per la presenza di riferimenti e piccoli particolari che rimandano di certo ad una cultura elevata e non massificata: dalla grande tradizione della musica classica ormai dimenticata e contaminata dalla musica pop di bassa lega al cinema impegnato, passando per lo sport sublimato come arte. Cifre stilistiche di un’Europa che fu, non ancora surrogato di tendenze oltre oceano, ma eccezionale unicum culturale. E Sorrentino tenta nel film di ricreare tale atmosfera rarefatta, di una cultura incontaminata perché segnata dall’età dei due artisti. I quali sembrano tuttavia non aver perso il talento di una vita. Ed è quest’ultimo il cardine di tutta la narrazione. Perché ostinatamente presentato come un dono divino da cui è impossibile discostarsi, di cui è impossibile disfarsi. Ma il conflitto vero e proprio dei due protagonisti emerge allorquando al proprio talento si abbina fatalmente l’impossibilità di adattarlo al presente. I due sono infatti uomini d’altri tempi, autori veri e artisti indiscussi, ma hanno subìto una sorta di atroce condanna da parte del tempo, loro tiranno, vale a dire la progressiva perdita della memoria a lungo termine, una sorta di alzheimer all’inverso (inusuale come trattazione della fase senile in ambito cinematografico) che non permette loro di ricordare il volto dei genitori. Un singolare morbo affligge dunque i nostri protagonisti: non ricordano più la fisionomia di chi li ha messi al mondo, ma ricordano rispettivamente tutte le arie composte, tutti i concerti diretti, tutti i film realizzati e il volto di tutte le muse in essi presenti. Il talento appartiene dunque ad una memoria a sé, fuori dalle logiche comuni, fuori dal tempo, mentre l’esistenza dei due appare molto lunga, anche per mezzo delle scelte registiche volutamente prolisse. <<Dicono che la vita sia breve, ma la vita è troppo lunga!>>, diceva Jimmy Gator in Magnolia. Ed è quello che sembrano pensare ogni attimo anche i due anziani amici in questo film. Quasi a lasciare intendere che ad una certa età sarebbe preferibile perdere completamente il senno o l’esistenza stessa piuttosto che stare ad osservare il mondo che rotola inesorabilmente sempre più verso il baratro e non poter far nulla. Non perché ormai privi di talento (come detto, il talento è la colonna portante di tutto il film, a qualunque fascia d’età si faccia riferimento), ma perché ormai spossati, disillusi, demotivati. Perché vecchi, insomma. Sta qui la drammaticità del film (non si parla infatti di tragicità vera e propria), nella consapevolezza cioè che il mantenimento di un talento puro anche in tarda età crea un’inadeguatezza di fondo alla società in cui si vive, che si vorrebbe invano ancora far esplodere come nei bei tempi ormai andati. Per questo rimane un film sulla giovinezza e non sulla vecchiaia, perché tratta del conflitto quasi irrisolvibile tra giovinezza d’animo, rappresentata dal talento appunto, incorruttibile e sempre presente, e il suo involucro materiale, sottoposto invece, forse salvificamente o forse a mo’ di condanna, alle corruttele del divenire. E non ci inganni il finale: La giovinezza è un film non propriamente ed esclusivamente positivo e speranzoso, ma un film narrante illusioni, disillusioni, vittorie e sconfitte. È ora una preghiera al buon Dio di poter risorgere dalle proprie ceneri, ora un’invettiva allo Stesso, reo di condannare ogni uomo all’appassimento. La giovinezza è tutto e il contrario di tutto, insomma.

A proposito. Nessuna uomo poteva esprimere tale conflitto meglio del terzo protagonista del film, emblema vivente di un verbo divino fattosi carne sotto le mentite spoglie di una semplice dote naturale: Diego Armando Maradona. Il suo ingresso in scena è da annali del cinema, in quanto un piano sequenza lo segue fin sulla lettiga dopo che l’ormai appesantito e malato genio del pallone ha fatto un bagno in piscina. Meravigliosa, tra tutte, la scena in cui il giocatore più superomistico della storia palleggia con una pallina da tennis, d’esterno, sotto il sole e appesantito come una betoniera. Il suo talento non viene minimamente scalfito dalla spiazzante ingiustizia della natura, che la volontà umana, alla maniera di un novello Fitzcarraldo, sembra per un attimo surclassare e abbattere. La stessa volontà che fa pronunciare all’apparentemente finito Diego, ancora una volta e quasi profeticamente, la parola futuro. In nome di un avvenire insperato che, come ben sappiamo, egli tornò davvero ad avere nelle vesti di allenatore della sua Argentina dopo ben cinque ricoveri (per ipertensione cardiaca, per overdose, per epatite e infine per disfunzione renale). Riscontriamo dunque due diverse reazioni alla vita nel film: da una parte, la decisione del vecchio regista di gettarsi dal balcone dopo aver constatato quanto brutto sia diventato quel mondo che credeva di conoscere e saper raccontare bene (alla maniera del protagonista di Birdman, per certi versi); dall’altra la testimonianza, seppur romanzata ma comunque reale, di un semidio dalle sembianze esclusivamente umane e per questo parecchio sofferente, ma pronto a ricominciare strenuamente, tentando il volo un po’ come uno strafottente calabrone in apparenza impossibilitato a farlo. Un po’ come un semidio, di fatto morto, resuscitato, rimorto, e di nuovo resuscitato, e avanti così per almeno cinque o sei volte e con una disinvoltura unica. Ma Maradona è anche altro. Rappresenta una netta presa di posizione in ambito artistico e culturale, in quanto oggetto speciale di un culto che è forse divenuto tendenza, ma anche personaggio emblema di un’ostilità profonda verso ogni tipo di cultura massificata di matrice americanistoide (la presentazione di Maradona avviene di spalle, mostrando il faccione di Marx tatuato sulla schiena; motivo per cui non arriverà alcun Oscar per Sorrentino). Torniamo dunque al messaggio iniziale, secondo cui tutto ciò che è sana cultura elitaria (nell’accezione di aristocratica) non dovrebbe avere nulla a che spartire con il cattivissimo gusto trash (ancor più che pop) di orripilanti video sbandierati su emittenti musicali, di effetti speciali terribilmente sovraesposti, della imperante monnezza seriale della tv preferita al vero cinema d’autore o semplicemente al cinema. Il tutto a scongiurare un concetto di bellezza inteso esclusivamente come pomposa e pompata ricchezza visiva, proponendolo invece come completezza etico-estetica (ne è l’incarnazione Miss Universo, capace, viva Dio, anche di parlare).

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Ma allora cosa non funziona in una pellicola di cui, fino a questo momento, abbiamo tessuto esclusivamente lodi? La risposta è secca: la sceneggiatura! E se si acquisisse per un attimo il punto di vista di chi considera a buon diritto la sceneggiatura come il sinolo, come “il tutto filmico”, sia materia che forma estetica, allora questo film risulterebbe manchevole in toto. Se una messa in scena del genere fosse difatti corroborata da una sceneggiatura più pacata, più verosimile e senz’altro meno sentenziale, meno lavorata, in questo caso risulterebbe molto probabilmente un film delizioso, una vera opera d’arte. Ma se ai fasti di una pinacoteca trasposta su pellicola aggiungiamo dialoghi forzati ed epifonematici, la frittata sembra servita. E guardare La giovinezza è come assistere ad uno spettacolo circense nel quale ogni secondo esplosioni pirotecniche e salti mortali improponibili allietano (ma nello stesso tempo, alla lunga, affaticano) i nostri occhi. Il tutto appesantito da frasi che metteremmo benissimo in bocca a sciamani o santoni, quando, invece, sarebbe preferibile il silenzio (ed è lo stesso anziano regista interpretato da Keitel a trovare nel silenzio il giusto finale del suo film). E cerchiamo dunque di dare una nostra personale interpretazione di questa smania totalitaria che Paolone mette in mostra ogni qual volta impugni una camera da presa. Innanzi tutto soggetto e sceneggiatura degli ultimi due film sembrano entrambi tratti da 8½ di Fellini (ancor più che da La dolce vita). E i riferimenti sono parecchi: dagli artisti a cui manca l’ispirazione per ricominciare un percorso artistico agli ingressi in scena di personaggi bislacchi in pure stile carnescialesco e circense all’elemento onirico (presente in realtà, ma in maniera surrealistica e dunque enigmatica, già da L’uomo in più). Per non parlare poi dello stile registico manierato e manipolatissimo, in cui Sorrentino somiglia al più ebbro Scorsese: carrelli accelerati da parco avventure, dolly vertiginosi e a volte anche nauseabondi. Il tutto con un montaggio apparentemente originalissimo, in quanto tendente ad accavallare in modo alternato scene diverse prima che cambi definitivamente la sequenza, ma che in realtà richiama perfettamente lo stile di  Donn Cambern in Easy Rider. Davvero originale, invece, la scelte kubrickiane e visivamente provocatorie di girare le scene dialogiche, anziché con un usuale campo-controcampo, con deliziosi piani d’ascolto (il che rende questo film, sotto certi aspetti, impopolare) e di allungare spesso il campo di ripresa, facendo credere allo spettatore che la scena stia per cambiare, per poi ridurlo nuovamente con netti primi piani. Tanta comunque, ma proprio tanta erudizione cinematografica riscontriamo in quest’ultimissimo Sorrentino. Ma possiamo ancora chiamarlo Sorrentino? È ancora sé stesso o si compiace forse eccessivamente e senza riscontro cinematografico reale di compiere rifacimenti post-moderni di film ormai passati? Il cinema di oggi ha più bisogno di “pseudoremake” o di autori d’eccezione, che sappiano, pur ancorati nella tradizione del passato, dare un’impronta nuova alla nostra realtà culturale? Non più di cinefili e sfrenati omaggi al cinema ha bisogno la cultura occidentale, ma di chi annienti l’oggi senza nemmeno menzionare ciò che è stato ieri, bene o male che sia (l’emblema, a tal riguardo, è l’ultima pellicola di Cronenberg, di cui abbiamo già parlato in questa rubrica, vale a dire Maps to the stars). Certo, la critica allo star system è abbastanza verace anche ne La giovinezza, ed è forse anche la chiave di volta dell’intera narrazione, per via della decisione finale del vecchio regista in seguito al rifiuto della sua musa di girare con lui. Ma tutto rimane in un involucro ermetico e vincolante che si chiama “richiamo ai modelli”. È come se il cinema di Paolo Sorrentino, insomma, vivesse di eterne contraddizioni performative, e questa è la ragione per la quale il pubblico ostenta reazioni radicali e contrarie: <<o lo si ama o lo si odia>>, dice qualcuno. E se questa recensione può apparire macchiata di vaghezza di giudizio, è solo perché abbiamo cercato di essere obiettivi quanto mai nel prendere una posizione a riguardo. E il nucleo del nostro giudizio sul Paolone nazionale è questo: il suo cinema è (diventato?) una pericolosa combinazione di cinema d’eccezione e cinema falso-autoriale. Facendo riferimento all’ambito calcistico, tanto per rimanere in tema, il suo cinema considerato di serie A sembra franare e retrocedere molto spesso in serie cadette. Uno stile insomma campato in aria, apparentemente barcollante, vago.

Ma La giovinezza è portatrice sana di una speranza, e cioè che, vista la parziale evoluzione rispetto al precedente La grande bellezza, il cinema di Sorrentino possa tornare pian piano a vestire i panni degli esordi, quelli del capolavoro assoluto L’uomo in più, per intenderci, mirabile esempio di equilibrio tra regia e sceneggiatura al cui livello nessun altro regista è mai arrivato. Che possa dunque tornare, il buon Paolone, a guardare la realtà come i protagonisti del suo ultimo film, con quel cannocchiale girato (non in segno di vecchiaia, ma di umiltà di pretese) così da non permettergli di volgere lo sguardo altrove, troppo lontano. Che possa puntare sempre meno, con l’età che avanza, a Hollywood e possa tornare a raccontare l’Italia, la sua Napoli, il nostro dramma meridionale. Riducendo la portata magari, ma si tratterebbe di una sua, di una nostra portata. Per tornare a farci sbraitare, dalle nostre salette, l’unica cosa che vale la pena urlare: <<Me’ coglioni!>>. Titolo a parte, naturalmente.

Gabriele Santoro

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LE SIRENE DEI TRENTA

benigniSuggestioni di metamorfosi. O, più verosimilmente, sosia da controfigura che assumono pensieri altri. Ma la verità è un’altra: l’agnello combattivo, integerrimo e socialmente impavido si sfianca moralmente sempre più, divenendo leone squattrinato, balordo, miserabile. Gli stati uniti d’america sono il male dell’umanità, il bene delle sue tasche; aggiungiamo che più si perde umanità, più si riempiono le tasche (o viceversa); concludiamo sillogisticamente che se ci si vuol (s)vendere a qualcuno, il miglior acquirente è l’america, il leone per eccellenza, ma miserabile per eccellenza. Due parole dunque: Roberto Benigni. Rassicuriamo tutti coloro che, in preda ad un shock anafilattico, non vorrebbero si facesse vilipendio delle spoglie del Robertone nazionale: il venduto in questione, il prostituitosi per meno di trenta denari, il corrotto nell’umanità e l’ingordo nelle tasche… è proprio lui! Che cambiamento radicale quello suo, che concessione gratuita (?) del proprio deretano! Sempre in posa, per l’abuso di messera america.

Metamorfosi, si diceva. Già, e per dimostrare lo straniante percorso involutivo di Benigni ci serviremo di due film da lui diretti e interpretati, famigerati quanto mai: Non ci resta che piangere e La vita è bella. Chiariamo all’istante: il primo è un capolavoro della storia della comicità italiana, il secondo è il maggior e probabilmente più indigesto (ad ogni uomo che mostri di avere appena un minimo di buon senso) polpettone della storia della cucina (non di certo del cinema) italiana. Ma andiamo con ordine. Non ci resta che piangere rappresenta la quintessenza del cinema d’autore; impegnato politicamente (nell’accezione di socialmente e socialisticamente); impiantato nel genere probabilmente più arduo (la commedia); indipendente. Non tanto da grosse produzioni, ma nel senso vintage del termine, in quanto svincolato da pressioni ideologiche, mediatiche, comunicative. È la storia di un bidello (Troisi) e un maestro (Benigni) che si ritrovano inspiegabilmente nel 1492. Dopo irriverenti e divertentissime peripezie, decidono di recarsi in Spagna per impedire a Colombo di partire alle volte dell’Occidente e scoprire una terra che sarebbe stata la rovina del mondo. Un film apparentemente lontanissimo da noi, ma che rivela problematiche tanto attuali quanto irrisolvibili. Perché nel 1984 si parlava già, da un lato, di una macroamerica, costituita da tutto quel calderone di ideali, ideologie, stili, modi, consuetudini, relazioni e rapporti imposti ed esportati più o meno coercitivamente; dall’altro di singole incarnazioni di tali credenziali americaniste, come Fred, lo spasimante, nel film, della sorella di Benigni. E ciò che più scuote è che sia proprio Benigni a pronunciare una feroce e sentita invettiva nei confronti di un’america sanguinaria, arrivista e carnefice. E al di là che il personaggio di Benigni sia mosso da questioni personali in questo biasimo spietato (non vuole che la sorella sposi Fred), è comunque una sequenza forte, insolita per messaggio veicolato, temerario e sfrontato, nella sua genuinità. E non si tratta di un personaggio scritturato da terzi e ad esso affidato. Il film è stato scritto e diretto da Troisi e dallo stesso Benigni, quindi è chiaro che Robertone abbia plasmato la personalità di questo combattivo maestro delle elementari sulla propria, a propria immagine. Un film a loro misura insomma, sfottente sino all’esasperazione, in cui la consapevolezza intellettuale di Benigni viene mitigata dalla (solo) apparente incoscienza intellettuale di Massimo Troisi. Un film in cui l’ironia diventa satira ma permane nell’ambito dell’umiltà più assoluta. Forse perché così diretta, defronzolata, destrutturata. Il monologo di Benigni appoggiato sul muro dell’ingenua Pia non ha nulla di malizioso. Non ha nulla dell’odierno Crozza, per intenderci. È satira solo ciò che verrà dopo, nella carriera del comico toscano. Quello, be’, è solo uno sfogo antiamericano che tutti vorrebbero sbraitare al mondo intero. E l’invettiva è reiterata, tanto che per tutta la sequenza successiva si discute sul talento degli americani, arrivando alla conclusione spropositatamente iperbolica secondo la quale nell’arte non esiste un solo americano degno di nota. Troisi e, ancor di più, Benigni sembrano entrare a gamba tesa senza temere un’espulsione. Ma il sistema mediatico sa come tappare buchi e rimediare alle situazioni spiacevoli. Sa insomma disinnescare mine vaganti e fare, all’occorrenza, da artificiere. Perché due sono le strade che portano all’omologazione informativa: l’eliminazione secca o la corruzione. E l’espulsione di cui sopra, per Benigni, non arriva. Ma arriva, ahinoi, una telefonata dall’alto.

È chiaro che il sistema americanistoide abbia visto una vena pungente in Benigni da poter rigirare a proprio vantaggio nemmeno fosse stata una frittata di uova e cipolle. E probabilmente non esiste cosa più umiliante e mortificante che essere tagliato fuori permettendoti di rimanere dentro. Trasmutandoti in ogni tua essenza. Modificandoti geneticamente. Perché ne La vita è bella è presente la più toccante dichiarazione d’amore della storia del cinema. Non quella rivolta a sua moglie o alla vita, ma proprio a messera america. Perché non passa inosservato quel finale antistorico, balordo, meschino, disonesto, traviante e induttore di ignoranza profonda in cui gli ameriCANI vengono dipinti come gli affrancatori dell’europa centro-settentrionale. La storia ufficiale (e non di certo quella underground) ci ha difatti insegnato che della liberazione di quella parte di europa e dei campi di sterminio si sono occupati soprattutto i ben più vicini Russi. È lapalissiano il processo di acuta mistificazione messo in atto da Benigni. Raccattatore di Oscar, accattone di consensi, raccoglitore di applausi. Caro Benigni, “gli applausi dicono molto di chi applaude e poco di chi è applaudito”, diceva un saggio professore. E a questo proposito, la fama di questo film denota un’elevatissima negligenza storica di chi lo preferisce a tanti altri. È logico che se avesse presentato i Russi come liberatori dei campi non sarebbe riuscito a vedere Los Angeles neppure col binocolo. Ma di fronte a questo bivio, avrebbe semplicemente potuto abbandonare l’idea di realizzare quel finale, con quel bambino trionfalmente e tronfiamente esibito su quel carro armato (roba da accapponare la pelle, a testimonianza del fatto che in america tutto termina con scorrazzate barocche e millantatrici). E invece no! Decide piuttosto di calare l’asso e mostrarci una sequenza da reato penale, penalissimo. Sia chiaro: ciascuno di noi è in vendita ed ha un prezzo in questo mondo. Ma qui non si tratta di costi e sconti, ma dell’esorbitante scarto intercorso tra il Benigni critico e quello politicamente corretto, tra la spina nel fianco di una cultura somministrata per endovena e l’amico fidato della stessa, di cui è oramai barboncino raccattaosso. Se facessimo l’esperimento di vedere prima Non ci resta che piangere e immediatamente dopo La vita è bella, rimarremmo spiazzati, disorientati. Un altro regista, un altro sceneggiatore, un altro uomo. Prostituzione intellettuale, potremmo definirla. Risposta a quella telefonata di cui sopra, ahinoi, potremmo rinominarla.

E Non ci resta che piangere non è che il secondo esempio di un Benigni capitano di ventura, disincantato nella sua protesta, per niente docile o addomesticato. Il suo esordio alla regia risale infatti all’anno precedente, il 1983, con Tu mi turbi. In questo film rimane celebre l’episodio della dura presa di posizione contro il sistema bancario, con la solita verve causticamente giocherellona che lo contraddistingueva. All’invito del direttore di banca a ricevere delle garanzie economiche inerenti al prestito richiesto per un’eventuale impossibilità di estinzione del debito, Benigni ribatte: <<Direttore, allora, se io ho bisogno di una melanzana e devo andare dall’ortolano, devo avere un miliardo di melanzane a casa?>>. Benigni aveva creato un personaggio tutto suo, che aveva già esibito anni prima a teatro, il contadino toscano Cioni. E con Tu mi turbi non fa altro che trasporlo in termini cinematografici e urbani. Un personaggio ingenuo (come si nota dall’episodio della banca), squisitamente smaliziato, fortunatamente per noi poco immesso nella civilizzazione che appiattisce e smaterializza. Sotto mentite spoglie si celava in realtà un intellettuale arguto e acuto, strenuo detrattore, socialisticamente parlando, delle magagne dei poteri che contano. E per di più credente, secondo uno schema che la sinistra intellettualoide e culturalmente dominante del tempo (e di oggi) non propugnava affatto.

Esiste poi un sequel della saga “I politici ghigni… di Benigni”, si chiama La tigre e la neve. Di certo un film più apprezzabile e un tantino più onesto de La vita è bella, ma non eccessivamente convincente. Narra di un professore la cui amata entra in coma in Iraq, durante la guerra. Un film apologetico sulla figura del soldato (americano), dipinto pateticamente come un uomo qualunque che fa della paura l’elemento predominante al fronte, in quanto spossato, debole, solo, abbandonato e bla bla bla. Per carità, cose sacrosantamente vere. Ma nel frattempo Benigni dimentica di parlare del perché la guerra in Iraq, l’ennesima guerra in Iraq ci sia (cosa fondamentale). E questo vuoto pneumatico va compensato con una melensa farcitura poetica sotto cui si sedimenta il nulla, il trastullo buonista. Scomodare il D’Annunzio poeta, sommo per antonomasia (dell’Alcyone, per esempio) non basta per distrarre paraculisticamente il pubblico dalle domande cui il film davvero dovrebbe rispondere e che non prende volontariamente nemmeno in considerazione. Ma urge una doverosa digressione: probabilmente chiunque di noi svenderebbe la propria coscienza critica alla fama hollywoodiana, al denaro facilmente riscuotibile, all’ammiccamento verso i più influenti, potenti. Ma sta a noi umili fruitori cinematografici, per lo meno, giudicare quale sia stato il miglior Benigni, il vero Benigni, riconoscendo la sua fase matura negli esordi, e la sua fase corrotta, in realtà, nella sua fase considerata matura. Ammettendo inoltre che la resistenza ad una certa sottocultura di matrice statunitense non rappresenta(va) per Benigni un suo sbandieramento politico a tinte rosseggianti. Al contrario il comico che oggi è diventato, quello sì che rappresenta la vox populi progressista, mancina, satiricamente emancipata; pddina, renziana, soprattutto, neodemocristianamente europea. Protagonista di un programma di manzoniano riassestamento culturale che parte dalla latrina chiamata tv e finalizzato a riscuotere consensi politici tra i sempre più sfiduciati Italiani (ricordiamo a proposito gli appuntamenti con le esegesi della costituzione o del nostro reazionario inno nazionale). Programma pianificato, naturalmente, da quel diavolone in giacca, cravatta e pietra filosofale che il presidente Napolitano rappresenta. Non dunque burattino della sinistra italiana, si badi bene. Ma, come si è detto, suo protagonista d’eccezione, sua punta di diamante. Nulla di diverso dal rappresentante artistico dell’altro versante, Barbareschi. Ma il nostro retaggio politico-culturale, snobbante e saccente, ci impone di considerare quest’ultimo poca roba in confronto a Benigni. Eppure, cosa è peggio: l’assenza di talento o una genialità sprecata e investita male?

P.s.: Si è appositamente deliberato di lasciare in minuscolo parole come americano, americani, america, costituzione, inno nazionale, europa. Entità queste ultime troppo spesso menzionate ma così lontane da noi da non doverle nemmeno avvicinare col pensiero e da non meritare un carattere grafico d’eccezione. Sia questo un umile invito a parlare del nostro di paesino, sia esso Agira, Regalbuto, Nissoria o Leonforte, e di nient’altro sia lontano appena un palmo dal nostro naso. Tornare insomma alle culture locali è l’imperativo categorico. Non italiane, non regionali, ma solo paesane! Perché siamo così protesi col naso all’insù da non comprendere che è la realtà particolare il vero punto focale da cui ripartire. Senza troppe pretese.

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IL BIASIMO DELLA CULTURA (su “American Psycho” di Mary Harron)

Povero Pindaro! A volte si affibbiano a personaggi molto raccomandabili antonomasie fuori luogo. I suoi apparentemente incoerenti balzi testuali erano semplicemente frutto, come appurato dalla onniveggente filologia, della concezione di coerenza testuale e intratestuale diversa, a quei tempi, dai giorni nostri. E proviamo per un attimo ad assumere il punto di vista del nostro povero Pindaro e volare da un contesto cinematografico all’altro. Contesti legati tuttavia da un filo rosso comune, tematico, referenziale. Che sembrano non collimare a primo acchito ma che rivelano congruenze notevoli. Abbiamo parlato nella nostra ultima analisi del film dell’anno, Birdman. Abbiamo avuto modo di analizzare l’ambito artistico della recitazione, detronizzandola a tal punto, sia essa cinematografica o teatrale, da sottrarle ogni aura di sacralità culturale. Non si è parlato semplicemente della morte dell’arte, ma ci si è posto il blasfemo dubbio che l’arte non esista affatto, o per lo meno non come l’abbiamo sempre concepita noi occidentali. Non rappresenta affatto emancipazione, né svincolamento dalle facezie con cui l’ignoranza ci affligge, né tantomeno catarsi (fino a prova contraria, del resto, quest’ultima è dominio della sola religione). L’arte, in quest’ottica, è invece portatrice sana di facezie stesse. Di vacuità, verrebbe da dire, di inutilità. Nell’epoca del post-consumismo ormai ibernato, l’arte rappresenta il superfluo per eccellenza, il materialistico come indirizzo intellettualistico di pensiero. Nulla sembra far discostare il sempliciotto che non va al teatro dall’imborghesito intellettualino da strapazzo che si pavoneggia di andarci mensilmente. Nessuna discriminante a favore insomma, se la cultura artisticamente impegnata rimane questa qui.

Colleghiamo adesso questa premessa al film di oggi, un film del 2000 (ormai Paleolitico, ma periodo cinematograficamente fertilissimo): American Psycho, di Mary Harron. Il film racconta di uno yuppie di Wall Street, il quale consuma le sue giornate tra oli tonificanti, creme purificanti, droghe e crimini efferati. Ci si chiederà cosa possa far convergere il nostro preambolo con un film dai toni invettivi nei confronti del balordo, sfiancante e frustrato mondo della finanza. Il filo conduttore è la passione del protagonista nel film, vale a dire la musica. E non un genere qualsiasi, ma la musica rock. Ma fermiamoci un attimo. Ciò che più stordisce del film è l’abbinamento quasi indigesto e senz’altro straniante (per noi post-moderni inclinati e appiattiti ad una sola sottocultura mondiale come quella anglosassone) di sangue e acculturamento. Infatti il protagonista del film, magistralmente e paurosamente interpretato da Christian Bale, prima di uccidere rivali di lavoro o prostitute senza alcuna reale motivazione, le indottrina sfoggiando la sua appassionata e passionale cultura musicale. Verrebbe quasi da pensare, per tutto il film, che un intenditore come lui debba e possa permettersi di fare di tutti carne da macello per via della sua incommensurabilmente più alta levatura culturale. E difatti rimane per tutto il film una lotta spregiudicata e morbosa contro individui dai costumi non proprio irreprensibili. Ma ci si rende conto col tempo che non si tratta di un punitore o giustiziere della notte. L’uccisione di stampo maniacalmente ritualistico che marchia ogni sua vittima conduce lo spettatore a pensare che sia un continuo delirio causato dall’ambiente che lo circonda, fatto di sgambetti, ghigni e pugnalate mascherati da convenevoli di circostanza. Fatto, soprattutto, di una competizione tutt’altro che sana (ammesso che una sanità di competizione esista al mondo). D’altro canto, però, il nostro protagonista non è affatto, come detto, esente dalla vanità che assilla il suo mondo. La palestra quotidiana, l’elenco di tutte le sostanze di cui cosparge il corpo, il sesso autocelebrativo ne sono la conferma. A proposito: le posizioni sessuali ostentate nel film sono anch’esse funzionali alla causa del protagonista. Egli non guarda mai in viso le donne con cui consuma rapporti, e piuttosto preferisce guardare sé stesso allo specchio durante l’atto. Il narcisismo che trapela da queste scene, portato all’esasperazione da fotogrammi nei quali si pone in tensione muscolare mostrando a sé stesso quanto grosso abbia il bicipite, dimostra come anche il sesso, in quest’ambito, diventi puro esercizio autoreferenziale, autoerotico dunque. E fa pensare molto il fatto che a quindici anni di distanza dall’uscita di questo film un certo stile di vita narcisistico, capillarmente ramificatosi in ogni ambito esistenziale, abbia travalicato gli argini del solo mondo finanziario preso in analisi nel film. Anche il più misero abitante del più misero paesino dimenticato dal mondo intero soffre delle stesse sindromi del protagonista del film (crimini esclusi?). Ecco allora svelata ancora una volta la funzione tutt’altro che salvifica dell’arte, sia essa musica, come nel caso di American psycho, sia essa teatro o cinema. L’arte dovrebbe affrancare dalla superficialità delle questioni mondane, dai chiacchiericci di borgate, dai falsi problemi sbraitati come apocalissi. Dovrebbe affrancare dall’ignoranza, nell’accezione più deteriore del termine (non quella dell’umile lavoratore). Ma non lo fa, perché, come il protagonista del film, anche noi fruiamo arte solo con spensieratezza, anche se con tutta la passione di questo mondo. Come pretendiamo che l’arte ci modelli o che si riesca ad introiettarla se andiamo al cinema, a teatro o ad un concerto con l’idea di staccare la spina della routine quotidiana e riattaccarla una volta finito tutto? Subiamo l’arte, non la viviamo pienamente. Forse anche a causa della politica che si ostina ancora, anche se non più partiticamente ma ideologicamente, a propinare solo certi modelli preconfezionati e spacciati per bandiere culturali (si pensi a Benigni e Fo) e a lasciar cadere nell’oblio tutto il resto. Magari bisognerebbe riproporre un’arte più selettiva così da far comprendere che quella spina, anziché essere staccata, andrebbe potenziata e saldata ancor di più. <<La cosa più triste è dire di andare a teatro per non pensare a niente…!>>, dice il grande Bergonzoni. Se non si vuol pensare a niente, si dorma pure! Ma l’arte deve far pensare, eccome! E perfino l’intrattenimento deve farlo, altrimenti si inganna il pubblico. Che non è sovrano di nulla e non deve peraltro esserlo, dovendo invece servire l’arte, anche se, come detto, non passivamente. L’arte ci scivola addosso come fosse acqua di primavera, siamo ad essa impermeabili. E l’indifferentismo culturale comincia già un attimo e mezzo dopo la fine della fruizione: aderenza zero!

Passiamo adesso ad analizzare l’ambito strettamente musicale. Il protagonista del film sembra rivelarci la pura verità su quello che è considerato erroneamente il genere musicale più controtendenza, più anticonformista, il rock appunto. Difatti, per chi non l’avesse ancora compreso, il rock subì già tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta una tremenda metamorfosi che lo condusse a divenire fenomeno di massa. Gruppi come i Guns ‘n Roses, i Queen, gli ultimi ACDC e gli stessi Rolling Stones non sono altro che la massima e più riuscita espressione di quel pop-rock (nell’accezione di “popolare”) che, pur partendo da una dimensione settaria, avanguardista e sperimentale, approda ad un consenso universale, acquisendo uno statuto culturale identificativo di un’epoca, di cui è inno, colonna sonora, non di certo lotta al sistema culturale di tendenza. E la lista di falsi idoli musicali che si rivelano essere solo vitelli d’oro va ben oltre: vi fanno parte mostri sacri come il musicalmente geniale Phil Collins. E ad essa noi potremmo aggiungere anche gli intoccabili Pink Floyd, i quali, lanciati nell’autostrada del genio da un vero mostro sacro della sperimentazione musicale e della metamorfosi elettronica del sound pop anni ’60 britannico, vale a dire Syd Barrett, hanno preferito ammorbidire i toni facendoli scemare verso il commerciale (seppur non nel senso assoluto del termine, naturalmente). Tuttavia costoro si salvano dalla baraonda della massificazione (non solo commerciale) degli albori degli anni ’80, rei quest’ultimi di impersonare un gusto musicale tronfio e magniloquente, di una magniloquenza violenta (non di certo lirica, propria dell’opera). E negli anni dell’inizio di una formale e formalizzata distensione diplomatica tra polo occidentale e polo sovietico, l’Occidente in realtà getta tacitamente le basi di un futuro rafforzamento del consenso culturale e ideologico agguantando il rock, strumentalizzandolo e identificandolo come proprio genere musicale. E altrettanto palese è la motivazione per cui il protagonista del film sia un ascoltatore di quel genere musicale e che non citi assolutamente, invece, il buon Syd Barrett per esempio.sydbarrett Il mondo dei rockettari bestemmiatori e insudiciati, in lotta contro tutto un mondo padronale, è terminato già da un pezzo ed è anzi stato da quest’ultimo assorbito ed introiettato. Succede dunque che un individuo corrotto, criminale, soverchiatore, pusillanime, omicida e ingordo di denaro e sesso ascolti la musica migliore degli anni Ottanta (Whitney Houston a parte, ad essere sinceri). La musica pop insomma sembra assumere antitetiche sfaccettature: è pop la musica disco degli anni Duemila come lo è il calderone rock di retaggio ottantino. Ed essa non rispecchia affatto la condizione giovanile del tempo, ma, annichilendo ogni democraticità di parata, è giostrata dall’alto, dai poteri forti responsabili della mediazione culturale. Da chi la cultura musicale la somministra illudendoci che possiamo pur sempre scansarla.

In quest’ottica sembra sollevarsi un polverone di straniamento percettivo. Cosa sia arte, cosa non lo sia. Se un fenomeno di massa riesca ad essere fenomenologia anche artistica o se non lo possa mai essere aprioristicamente. Tanti insomma gli interrogativi. E la risposta sembra scivolare su una doverosa e prevedibile conclusione: è come se una certa cultura (sia essa musicale, sia essa teatrale o cinematografica) non riuscisse a sollevarci dalla terribile perturbabilità d’animo e anzi ci sobillasse alla violenza di carni, o anche solo mentale o autodistruttiva. Il rock, in questo caso, come musica diabolica. E un vecchio detto recitava che senza saper nulla si vivesse meglio. Noi pensiamo che in un mondo di furbi e cretini di ogni età l’imperturbabilità serva come acqua nel deserto. Dunque l’invito potrebbe essere quello di schivare altezzosamente ogni forma di cultura monodimensionale e popolare (nel senso di massificato) e cercare altro che possa davvero sorvolare sulla vana mondanità.

Piccolo commento stilistico, infine, al film. Il riferimento narrativo al finale di Fuori orario di Scorsese sembra essere chiaro. Difatti in entrambi il protagonista entra in un vorticoso circolo di persecuzioni e inseguimenti, deliri e sogni. E particolare attenzione va riservata alla scena abbastanza singolare in cui il personaggio interpretato da Bale uccide l’ultima prostituta lanciando dal terzo piano una motosega e colpendo fortunosamente la donna. L’avvenimento è abbastanza inverosimile, ma è funzionale a consegnare allo spettatore il dubbio che quegli avvenimenti non siano veri (non scadendo però in un gratuito e patetico finale ad effetto da film d’azione di oggi) e che siano frutto di una nevrosi maniaco-compulsiva del protagonista e dunque di una sua visione. E qui sta la chiave di lettura del film: qualora fosse una sua allucinazione, allora la sconfitta del protagonista sarebbe totale, definitiva, doppia. Ciò che fino a quel momento lo aveva reso un titano, pronto ad effettuare sciacallaggio in un mondo, quello di Wall Street, di sciacalli, ciò che insomma lo aveva reso un primus inter pares, adesso si rivela essere nient’altro che un desiderio delirante. Frustrato, represso, per questo continuamente immaginato. Lo sciacallo retrocede a gazzella e da carnefice, dunque, diventa misera e commiserabile vittima, costretta a recitare a sé stessa monologhi e apologie di cantanti e stelle della musica. Ridotta a non poter espiare la propria foga ritmata a tempo di rock. Ridotta ad una mortificante solitudine, anche di fronte ai propri orrori.

Gabriele Santoro

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L’IMPREVEDIBILE APONIA DELL’OLTREUOMO (su “Birdman” di Iñáritu)

Maledette libere associazioni! Freud non ci aveva mica avvertito delle controindicazioni. Perché esse sembrano vertere sempre su luoghi comuni categorizzati sommariamente. Ad un termine, ad un evento viene sempre associato ciò che più dovrebbe essere oggetto di oblio. Se il nostro psicanalista, per esempio, pronunciasse la parola Birdman, noi risponderemmo, come fosse un flusso inconscio e senza esitazione, con la parola Oscar. Che mortificazione, per quest’ottimo lungometraggio firmato Iñáritu. Perché ciò che proprio non gli si dovrebbe affibbiare è quella indegna parola. Che nulla significa. Che nulla aggiunge o sottrae ad un film, su cui non bisogna riporre aspettative. Quel termine sortisce a volte, anzi, un effetto contrario: corrompe inesorabilmente ogni opera o autore a esso sussunti. Come un po’ il Pallone d’oro, il Premio Nobel o il Festival di Sanremo, quello dell’Academy di Hollywood è un gran galà del trastullo mediatico, niente di più. Quindi rimuoviamo dal film di oggi, Birdman, l’alone che ben quattro statuette gli hanno lasciato. Le quali non compromettono tuttavia il lavoro del regista.

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Premessa: quella cui abbiamo assistito con Birdman è una quasi traumatica conversione al modello registico massimalista e hollywoodiano da parte di Iñáritu. Le riprese di 21 grammi, per intenderci, sono belle che rinnegate in questo film. È vero, la camera a spalla si scorge ancora, ma ciò che nei primi film sembrava essere (anche se non sul piano del montaggio, da sempre poco usuale nel regista in questione) un manifesto di Dogma 95, il movimento cinematografico propugnato da Lars Von Trier a metà anni ’90, ha lasciato adesso spazio ad espedienti tecnici virtuosistici. La castità delle riprese, insomma, viene adesso disattesa, per via degli interminabili carrelli, dei piani sequenza estenuanti e degli effetti speciali (comunque metacinematografici, come vedremo). Il tutto, però, è non solo giustificato ma anche perfettamente congruente con le intenzioni autoriali. Questa fatica di Iñáritu non va dunque ad inscriversi nell’ambito delle svendite totali al miglior acquirente hollywoodiano, ma ad un moderato ingresso nel circuito cinematografico a stelle e strisce con un linguaggio rinnovato ma, se non altro, corroborato dai temi trattati. Vediamo perché.

Il film narra di una star hollywoodiana a fine carriera, il quale vuole dimostrare, dirigendo e interpretando tra mille tragicomiche peripezie uno spettacolo a Broadway, di non essere un buono a nulla e aver meritato l’enorme fama del passato. Raggiunta, quest’ultima, grazie ad un supereroe interpretato in una saga anni prima, Birdman appunto. Questo ruolo gli sta stretto ormai. O bisognerebbe dire, piuttosto, abbastanza largo. Difatti ciò che sorprende per prima cosa nel film è il suo rapporto nevrotico, o persino paranoico e potremmo dire post-traumatico con il suo passato, con il suo alter-ego in costume da uccello piumato. Che lo invita continuamente e tirannicamente ad abbandonare la baracca chiamata teatro perché eccessivamente claustrofobica. Per buona parte del film sentiamo le voci che lui stesso sente tuonare, vediamo le stesse cose che vede lui. Pensando persino, per un attimo, che abbia davvero quegli stessi superpoteri che aveva in scena parecchi anni prima (cogliamo infatti il protagonista che muove telecineticamente gli oggetti). Frutto della sua immaginazione probabilmente, ma questo non importa. Importa piuttosto la modalità con la quale sin dall’inizio il film sovrapponga non solo piano surreale filmico a piano reale filmico, ma anche e soprattutto piano reale strictu sensu, piano “intertestuale”, piano teatrale filmico e piano teatrale extracinematografico tra loro. Realtà e finzione più o meno sbandierate costituiscono una trama intricatissima di suggestioni e riferimenti e il film non si esaurisce sicuramente al solo circuito strettamente cinematografico. Il rapporto tra cinema e teatro è senz’altro visto dialetticamente, e a spuntarla non è di certo un mondo artistico sull’altro. Diversamente da quanto si possa pensare inizialmente, Hollywood non trionfa affatto nel finale del film. Che condanna incondizionatamente entrambi gli ambiti. Da una parte è sotto accusa lo pseudo-integerrimo teatro di Broadway, oggetto di maniacali rivalse di attorucoli ormai sul viale del tramonto che sembrano tuttavia meritare una possibilità più di tanti altri attori teatralmente affermati. Luogo di snobbismo ostentato ma vacante poi; di pellicce da poco acquistate con i saldi di gennaio e da esibire con aristocratica eleganza; di critici e recensori comodisti e pantofolai, che rifuggono da ogni iniziativa e possibilità di mettersi in gioco criticando tuttavia chiunque osi farlo. «Tu scriverai una brutta recensione sul nostro spettacolo solo dopo che noi avremo fatto una brutta interpretazione», ricorda, nel film, il personaggio di Edward Norton alla giornalista del New York Times. L’azione impavida anche se disastrosa vale più di mille belle parole, sembra voler dire. E mettersi in gioco in un ambiente così cannibalesco è da veri temerari. Teatro visto dunque come microcosmo ermeticamente chiuso ai più, perché selettivo. O, semplicemente, perché emblema di una classe medioborghese che crede di rappresentare la guida intellettuale e culturale di un paese. Teatro che risulta in realtà (ed è questa la più feroce critica) tremendamente popolare, o comunque più di quanto la puzza sotto il naso di chi lo riempie dia a vedere. Lo spettacolo messo in scena nel film, infatti, risulta all’unanimità un successo solo dopo che il protagonista escogita involontariamente una soluzione a dir poco trash. In preda ad una grave crisi di identità, decide di sostituire la pistola finta del finale dello spettacolo (l’adattamento teatrale della raccolta What we talk about when we talk about love di Raymond Carver) con una vera. Cercando di suicidarsi in diretta, come atto di totale rinnegamento di questo mondo teatrale in cui si sente perennemente afflitto da un complesso di miserrima inferiorità. Ma, proprio come uno dei protagonisti della raccolta di Carver, anche lui fa cilecca, sfigurandosi il viso di fronte alle acclamazioni e ovazioni dello stolto pubblico pseudo-impegnato. Dimostrando e apprendendo involontariamente quanto sia balordamente facile stupire il pubblico o, per meglio dire, quanto il pubblico sia facilmente scuotibile attraverso trovate di cattivo gusto, imprevedibili e fortuite. Perché il protagonista del film avrebbe voluto semplicemente morirci su quel palco, senza gustare il sapore della fama che realmente conta. Ma dal fetore della morte passa immediatamente alla gloria (paradosso!) senza stazioni intermedie. E una volta risvegliatosi dall’operazione e riscopertosi vivo, capisce che è davvero impossibile fare qualcosa di artistico nell’America di oggi, e che ciò che dovrebbe essere uno sfogo suicida e disfattista (non nichilista) altro non viene visto se non come un espediente iper-realista, originalissimo e geniale, apprezzato persino dalla critica dotta per eccellenza (rappresentata dalla giornalista di cui sopra), che credevamo non così facilmente entusiasmabile. Una sequenza che sembra insomma essere l’epitaffio della cultura e dell’arte occidentale, dove ciò che è artistico viene snobbato e ciò che è solo visivamente impattante genera ingannevolmente becero entusiasmo («Il sangue scorre veramente sul palco di Broadway», scrive con patetico trasporto la giornalista). Il che crea una ancora più profonda consapevolezza di sconfitta nel protagonista, sempre più attonito di fronte al mondo mediatico e sempre più mediaticizzato. Ancor più solo, soprattutto. Perché scopre una spiazzante superficialità anche nel suo migliore amico, nonché suo agente. Reo, quest’ultimo, di aver esultato puerilmente per l’ottima risposta di pubblico e critica alla prima dello spettacolo in cui il suo disgraziato amico ci stava per rimettere “le penne”. È l’ennesima conferma, per quel pover’uomo, che la fama (o, per meglio dire, la sua aspettativa mediatica o virtuale, tra followers di Twitter, amicizie di Facebook e visualizzazioni di YouTube)  soffoca tutto il resto. Persino il denaro, figuriamoci amicizie e amori parentali (la figlia appare come una tossica non quando si droga ma quando si dimena sui social networks). Per questo il protagonista diviene superiore rispetto alla miseria del mondo, abbandonando sia il teatro, che lo ha definitivamente annichilito, che il suo ossessionante Birdman, che aveva pur sempre previsto le sue delusioni drammaturgiche. Divenendo non supereroe, ma superuomo, o, per essere più corretti, oltreuomo. Capace cioè di ristabilire una struttura etica del mondo in cui vive attraverso la sua sola e personale morale. Riuscendo, questa volta sul serio, a scrollarsi quelle terribili e pacchiane piume di piombo e a volare (ci riferiamo agli ultimi fotogrammi, in cui la figlia si affaccia alla finestra e lo scorge fluttuare nell’aria). Ma non è il trionfo di un eroe, piuttosto la sconfitta del mondo circostante, galleggiante nel vuoto pneumatico dell’indifferenza reale e della notorietà virtuale. L’unico modo per continuare a vivere, sembra rivelarci il film, è mantenendosi al di sopra di tutto, raggiungendo cioè una sorta di imperturbabilità, di aponia (assenza di dolore) che ci permetta di volare strafottentemente altrove.

Ma noi siamo poveri cristi. E un passato glorioso da star hollywoodiana neppure ce lo abbiamo. Forse meglio così, chi lo sa. Perché diminuiscono inesorabilmente tutte le aspettative che tiriamo fuori dalla vita. Chi come il protagonista del film ha per anni vestito i panni di un dio vestito da uccello è di certo più soggetto a deliri di onnipotenza. Pensando di poter riallacciare la maschera e tornare a combattere giganteschi pterodattili. Consapevole, tuttavia, di essere tornato sulla terra e tra i mortali allorquando al nemico mostruoso e titanico si sostituisce al massimo una biondina viscida seduta in una sala teatrale che si è costretti a fronteggiare. Anche il nemico si minimizza, creando umiliazione. Per noi invece è molto più facile volare al di sopra di tutto, perché comuni mortali. E il monito del film sembra proprio quello di non lasciarsi lusingare dalle sirene del successo, prima che sia troppo tardi.

Non sfugge alla critica, naturalmente, neppure Hollywood. Vista anch’essa, anche se non direttamente e dall’interno, come un universo svuotato di ogni spunto culturale. E Iñáritu smonta la magniloquenza eccessivamente sovraesposta degli effetti speciali del cinema contemporaneo nell’unico modo possibile, rappresentandoli nel migliore dei modi. Certo, si sarebbe preferita una scelta alternativa, quella per esempio di mostrare effetti speciali macchiettistici da anni ’90, volutamente difettati insomma, schernendoli davvero e detronizzandoli (come fa Cronenberg, nell’ultimo Maps to the stars). Tuttavia, quelle riprese colossali si possono leggere come un momentaneo desiderio di ritorno a quel tipo di cinema da parte del protagonista nel momento in cui è ormai vecchio e inetto. Inoltre, le maxi produzioni holliwoodiane dell’età dell’oro del protagonista lasciano spazio ad una realtà pecuniaria ben diversa, quella del fiacco autofinanziamento dello spettacolo teatrale con rischio pignoramenti. Da notare, infine, come la critica verso teatro e cinema siano convulsamente impattanti. Il carrello e il piano sequenza (non si tratta, nel film, di uno unico, ma di carrelli prolissi ma interrotti in punti bui) sono al tempo stesso dei peculiari tratti cinematografici ma anche ciò che più avvicina la settima arte al teatro, come linguaggio estetico, come contemporaneità d’azione.

Infine va analizzata la relazione tra film e realtà effettuale. Quella che vede insomma Michael Keaton eccezionale protagonista di un film nel quale solo lui probabilmente avrebbe potuto recitare. In primo luogo per via dell’aderenza tra condizione del protagonista del film, imbottigliato nei famigerati ma asfittici panni di un supereroe, e lo stesso Keaton, ricordato dai più per la sua (volutamente) inespressiva interpretazione nei due deliziosi Batman di Burton. E proprio sotto questo aspetto sembra svelarsi il vero senso di Birdman: ciò che va riabilitato è il nome di uno degli attori più sottovalutati della storia del cinema, rendendolo soggetto di una rivalsa che è personale ancor prima che interpretativa. Perché Micheal Keaton dimostra eccome, nel film, l’imprevedibile virtù dell’ignoranza (come il sottotitolo del film recita), la sua imprevedibile virtù. Ed è paradossale che proprio a lui non sia andata quell’imbecille statuetta come miglior attore. Perché il film sembra perfettamente ruotare attorno a lui, sembra essere a sua immagine scolpito. La storia di un attore masticato, ruminato e sputato via dallo star system americano portato sullo schermo da un attore masticato, ruminato e sputato via dallo star system americano. Raccontato attraverso il teatro, ma un teatro d’astrazione, in quanto cinematografato. Riferimenti interni alla narrazione e collegamenti reali creano dunque un cortocircuito per il quale non ci si rende più conto di cosa sia vero, verosimile, surreale, credibile, finto, assieme credibile e finto… Be’, anche noi ci eravamo fatti prendere da un piano sequenza lunghissimo trasposto su carta. È la forza influenzante di Birdman, probabilmente. È la forza terribilmente dispotica del cinema.

Gabriele Santoro

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LE SCARPE DEL DIAVOLO (su “American sniper” di Eastwood)

Chiamasi inflazione quel crollo più o meno vertiginoso del valore di qualsivoglia oggetto perché troppo presente nel proprio circuito di riferimento e di dominio. E non solo moneta e beni commerciali possono soffrire di inflazionite acuta, ma persino idee, messaggi, conflitti (ideologici o bellici che siano), mezzi di comunicazione, culture, arti. E proprio nel calderone del detto, ridetto, trito, ritrito e rigurgitato già abbastanza mescoliamo anche noi la stessa minestra che le televisioni di tutto il mondo ci hanno servito quotidianamente ormai da tempo. Ed ecco che persino l’individuo su cui è stato depositato maggiore oblio negli ultimi decenni, vale a dire Clint Eastwood, diventa mero strumento di controversie mascherate e strumentalizzazioni politiche tutt’altro che veementi. Tanto rumore per nulla insomma. Solo creste mediatiche su un’inflazione mediatica. Perché American sniper, il film di oggi, è stato il caso cinematografico dell’anno. E diversamente da quanto possa pensare qualche autorevole critico, ciò che diventa in maniera massificata carne da macello in pasto a talk shows da lunedì sera non è di certo arte, o per lo meno non più. Un’opera d’arte tiene conto di un’unità di intenti su cui non è necessario neppure discutere dialetticamente con coloro i quali ne sono detrattori. Un’opera d’arte è, e le chiacchiere stanno a zero. Partiamo dunque da una illuminante premessa: qualunque cosa sia, di certo American sniper non è arte.

E ora che il chiacchiericcio si è assopito, interveniamo noi, scomodando uno dei maggiori critici cinematografici postmoderni, nonché filosofo: Slavoj Žižek. Egli afferma che quella che si sta combattendo nel mondo del cinema (e non solo), dagli anni Ottanta soprattutto, è una fitta guerra ideologica. Nonostante rappresentino apparentemente gli anni della distensione tra polo occidentale e polo sovietico, si è di seguito combattuto per appiattire l’intero pianeta ad un solo modello, quello non più soltanto e semplicemente borghese (datato quanto mai), ma aggiornato al nuovo stile di vita consumistico e consumato, illusivo, imprenditoriale, capitalistoide e sociopatico e individualista. Ad essere asfaltate ideologicamente sono state civiltà “altre”, davvero aliene in confronto all’idealtipo western (si pensi, ai nostri giorni, all’intero Medioriente). Ma la lobotomia non è di certo indirizzata a queste ultime, ma alle masse occidentali stesse, che hanno bisogno di registi, attori, idoli, in ultima analisi, che possano legittimare e giustificare il nostro ariano predominio culturale. E in questo contesto si inserisce il discorso su American sniper. Non c’è dubbio che sia un film schierato dalla parte dei guerrafondai occidentali, e lo si deduce già dall’approccio, analitico sì, ma relativamente al solo ambito statunitense. Il mondo arabo e islamico è passato in rassegna con una tale superficialità e indifferenza senza precedenti: un popolo crudo, inspiegabilmente spregiudicato, caratterizzato da una tendenza alla violenza più grezza e non lavorata; oppure un popolo ignavo, vendibile al miglior offerente pur di preservare la pellaccia. Ma gli perdoniamo tutto ciò a Eastwood, perché sappiamo che il suo cinema ha sempre raccontato, kantianamente e in maniera intellettualmente onesta e critica, la sola realtà che ciascun regista che si rispetti dovrebbe spiattellare sullo schermo: quella che è immediatamente sotto i suoi occhi. Allora ci si aspetterebbe che almeno venga scandagliato il fondale delle più atroci e subdole guerre del Novecento, quelle dichiarate al Medioriente, al fine di carpirne le dinamiche più o meno nascoste. Ma anche in questo caso le speranze vengono disattese. Il film si svolge “in trincea”, come si suol dire. Non vi sono alti gradi coinvolti diegeticamente, né segretari di stato, né petrolieri. Solo tanti soldati che alla guerra ci credono eccome, senza chiedersi un solo perché, senza obiettare all’ipse dixit di stato. Allora ci si sforza di cercare altrove una condanna alla guerra. E la si trova fortunatamente nell’ultima mezzora di film. Il personaggio di Kyle, interpretato da un ingenuo Cooper, in preda a stress di natura post-traumatica, sembra perdere sempre più il senno fin quando lo ritrova grazie all’appoggio della famiglia e altri reduci. Tutto risistemato, lontano dalla guerra. Ma Eastwood sembra tuonare che la guerra è uno strascico che ci si porta dietro anche lontani anni luce dal campo di battaglia. È uno stato mentale perenne che si può ripercuotere su ogni reduce anche a distanza di anni. La tragica fine del protagonista, ucciso da un ex marine, ne è la conferma. Ma proprio quando sembra terminare l’ennesimo capolavoro (o quasi) di Eastwood, il finale ci spiazza. Lo straniamento estetico-narrativo causato da quelle malsane immagini di repertorio relative al corteo funebre di Kyle danno la stessa sensazione fisiologica di una subbia conficcata inaspettatamente nella testa dello spettatore. Il quale, il più delle volte sorvolandoci su, non bada alla caduta di stile del buon Clint e torna a casa propria, un po’ come Oloferne e con la stessa sua fierezza, mutilato e con la subbia di cui sopra ancora in mostra, sbraitando di aver appena visto il film del secolo. Ora… Non si comprende bene quale fosse il tentativo del regista: se quello di denunciare la guerra ed esaltare le virtù di Kyle, il quale, tuttavia, della guerra è comunque fautore; oppure quello di proporre un modello di uomo americano integerrimo che, diversamente da Giobbe nella Bibbia, non rimprovera o rivendica nulla al proprio dio chiamato America, seppur lasciato solo; o ancora quello di denunciare ogni programma di manipolazione cerebrale e mediatica che il governo statunitense ordisce a scapito del cittadino medio, sobillandolo, inferocendolo; oppure, infine, quello di dimostrare come, nell’ora della morte di un concittadino prima abbandonato al proprio destino, gli Americani siano così fessi da celebrarlo solo perché dal passato glorioso (ed è l’opzione che spereremmo fosse valida, anche se forzata). Ciò che possiamo dire con sicurezza è che Eastwood ha probabilmente fatto ciò che più gli garbava, perché non vogliamo credere che un quasi ottantacinquenne si svenda artisticamente al consenso del proprio paese dopo una carriera impeccabile. Certo con questo film sembra deragliare verso una sorta di fondamentalismo repubblicano – o sarebbe meglio denominarlo semplicemente americano – che non lo ha mai contraddistinto veramente (nonostante possegga dagli anni Cinquanta la tessera del partito). Il suo conservatorismo moderato e progressista ha da sempre consentito che venisse considerato come il più moderno, realista e obiettivo regista di Hollywood, portatore sano di un senso morale individuale e pragmatico sotto cui sussumere un’etica universale troppo spesso non garante di eccezioni, debolezze e casistiche. Una sorta di Kant postmoderno insomma. Ma questo finale sembra adesso non lasciare adito a interpretazioni o fraintendimenti: l’America rende omaggio ad un macellaio, scannatore di centosessanta individui (armati o meno, questo non conta); ad un cecchino da videogiochi. Perché, seppur in buona fede, di questo si tratta. Certo, lo stesso Kubrick in Orizzonti di gloria ci aveva avvisato che l’unica cosa che si può fare quando ormai si è partiti per il fronte è combattere e continuare ancora a combattere. Ma ciò che più sconvolge è scorgere la guerra e il suo spirito di vanagloria anche tra le strade metropolitane e tra la gente comune che non ha mai impugnato un M24. Scoprire insomma (o, per meglio dire, avere la conferma) che la guerra non finisce al fronte, ma che non è dominio solo dei soldati reduci, in quanto stato mentale, come già detto, universale, anche della gente comune. La quale introietta volontariamente, alla morte del totem Kyle, parte della responsabilità dell’uccisione degli Iracheni da lui eroicamente abbattuti.

Ma Eastwood è sempre Eastwood. Proviamo dunque per un attimo e con enorme sforzo a perdonargli anche quest’accapponante sequenza di scorrazzate reazionarie e bandiere tremendamente nazionaliste. Chiudendo gli occhi magari. Ma se sempre restassero attivate le nostre orecchie, approderemmo al misfatto finale. Imperdonabile, questa volta, biasimabile fino all’esasperazione. Perché o il buon Clint ha dimenticato l’importanza rivestita, soprattutto in un film di guerra, dal circuito fonico oppure ha appositamente adagiato le già citate scene del corteo di Kyle su una confettura musicale esasperatamente diabetica e magniloquente. Sulle note infatti di un motivo molto simile a quello del Silenzio funebre, anche se molto più melodico e orchestrato, Eastwood sembra prostrarsi definitivamente al cospetto degli altari della patria. E se è vero che il messaggio di un film procede dal suo finale, allora il bollettino medico di American sniper recita: propagandite acuta.

C’è poi chi ha azzardato un’interpretazione storico-sociologica del film. “Sempre meglio gli Americani e il loro sfegatato patriottismo piuttosto che noi, macchiati di indifferentismo nazionale”. Aggiungendo dell’altro a questa superficialissima constatazione, potremmo tirare in ballo la storia dei rispettivi paesi e dimostrare come la differenza non sia così semplice da analizzare. Da una parte gli USA, eretti su una fanghiglia di terra e sangue nativo che non può non delegittimare ogni senso di appartenenza, anche il più genuino, in quanto geneticamente fallace. Dall’altra l’Italia e i suoi abitanti, soprattutto meridionali, i quali, pur potendo storicamente rivendicare un radicamento molto più profondo al territorio di quanto non possano fare Californiani e Texani messi assieme, preferiscono non considerarsi neppure Italiani, per via di un retaggio di antidemocraticità che ha pervaso il manovrato processo di unificazione del nostro paese. Storicamente parlando, dunque, nessun fatto di sangue ci ha mai legato realmente. Il senso di appartenenza nazionale è il più delle volte, in ultima analisi, un rito apotropaico atto a scongiurare, esorcizzare e occultare orrori del passato da cui si vuol fuggire. E la violenza commessa, come si evince anche dal film, ha un ruolo sociale, di coesione contro un nemico comune. Niente di più, niente di meno. Una violenza pianificata dall’alto e messa in atto da braccia di cittadini modello che incarnano vitelli d’oro da idolatrare. “Meglio noi che loro”, ribattiamo dunque a qualche moralista da strapazzo, destrorso o pddino che sia.

Il film ha comunque dei punti di forza. Per quanto riguarda l’organizzazione e la disposizione dei “significanti” cinematografici (ciò che in linguistica si chiama forma dell’espressione), dal punto di vista strettamente estetico-formale insomma, la pellicola, finale a parte, non mostra sbavature. Le sequenze di guerra sono volutamente di gran lunga più prolisse delle scene familiari o domestiche. Il montaggio compresso svuota al punto giusto le scene al di fuori dell’Iraq, che risultano giustamente troppo concise. Non esiste opportunità altra per il protagonista se non quella offerta dalla guerra, tra una piccola parentesi e l’altra di matrimoni, accoppiamenti, parti che hanno il sapore di “toccate e fughe”. Come se la famiglia fosse un passatempo e la patria il chiodo fisso. Singolare è la reazione in itinere dello spettatore, che ha sensazioni man mano opposte a quelle del protagonista. Seppur in balia di miriadi di pericoli mortali, Kyle si sente nel suo habitat naturale tra boati, esplosioni, tonfi, spari, urla e tempeste di sabbia. Lo spettatore invece risulta provato dopo alcune sequenze raggiungendo la pace dei sensi quando il circuito del suono tace per un attimo e Kyle torna a casa. Ma è per lui quella casa a mostrargli più fantasmi di quanti non gliene proponga l’Iraq (memorabile la scena in cui fissa la tv come se ci fosse un filmato di guerra per poi scoprire, con una panoramica, che è spenta).

Passiamo infine ad analizzare la figura probabilmente più emblematica, quella del cecchino avversario, alter ego musulmano dell’americanissimo e leggendario Kyle. Innanzi tutto possiamo dire che non è affatto logico parteggiare durante il film per Kyle imprecando per l’avversario dal momento che rivestono lo stesso identico ruolo. La sola differenza è che ancora una volta Eastwood non fa alcun riferimento anche solo fortuito alla vita del cecchino Mustafa, non introducendolo affatto nella narrazione, nella quale sbuca come una trappola nella giungla vietnamita. In questo senso il film, ancora una volta ambiguo e indecifrabile, crea una sorta di microcosmo rappresentato dalle sole gesta, assolutistiche e totalitarie, di Kyle. Il quale sembra coinvolto in un videogioco in cui le difficoltà rappresentano i vari livelli e i nemici vanno sparati e scannati senza sapere chi siano, incondizionatamente. Nessuna minima introspezione sui personaggi insomma. Come è normale che sia in guerra, si potrebbe ribattere. Esattamente, ma sta poi nella dittatura dei mezzi diegetici del regista poter andare oltre, se solo lo volesse. E, per quanto ci riguarda, questo film avrebbe potuto concernere le imprese del cecchino musulmano e non avrebbe di certo avuto una connotazione più negativa. Paradossalmente, potremmo invitare il buon Clint a realizzare un secondo film, Arabian sniper, una sorta di midquel. E ciò che diciamo ha dei riscontri nell’ennesimo scivolone del film, riguardante la post-produzione della scena dell’uccisione di Mustafa. Dunque… Il tutto parte con toni abbastanza elevati, vista la lontananza di Kyle dal bersaglio (circa due chilometri). Pur volendo dare per scontate la possibilità di colpire a quella distanza e la sicurezza di Kyle che si tratti proprio di Mastafa, l’uccisione arriva con quanto di più balordo e patetico vi sia nel mondo del cinema, se non usato con buon gusto: il rallenty. Appena sopportabile in film fumettistici, il rallenty assume qui una valenza terribilmente prosopopeica, mostrando la fuoriuscita del proiettile dalla canna a 1 km orario (che si conficca nella fronte di Mustafa a 2 km orari e mezzo) ed enfatizzando, gioco forza, dalla parte di Kyle. È vero che da qui esplode la volontà di Kyle di tornare a casa, ma quella scena rimane troppo visivamente corroborata per non essere particolarmente sentita dal regista. E il pubblico stolto quanto mai (che Eastwood dovrebbe conoscere bene) non ha fatto che applaudire dopo l’improbabile colpo da 2km, anziché esclamare un caustico “Sì va be’, come no!”. E l’inganno maggiore di Eastwood è stato quello di realizzare il film di un genere delicatissimo, di guerra, fondendolo con il genere più rischioso in assoluto, quello biografico. Ne viene fuori una sorta di biopic dalle fondamenta già abbastanza cedevoli e tutt’altro che incondizionatamente verosimile su un personaggio che non siamo nemmeno sicuri fosse così umile e parco. Strumentalizzazione, la chiamerebbe qualcuno. Mistificazione, possiamo rinominarla. Perché il personaggio è fin troppo inserito nella storia ufficiale per non riuscire, cinematograficamente parlando, a riplasmarla in modo fallace.

Chiudiamo con l’unico elemento che riteniamo davvero degno di rilievo. Quando entra in scena il cecchino musulmano, all’inizio della sequenza che porterà alla sua uccisione, viene inquadrato interamente con un carrello a retrocedere. Esso parte dai piedi dell’individuo e scorgiamo un particolare singolare: le scarpe, di colore rosso, con un marchio stampato sopra che tutto il mondo conosce bene. Si tratta del più popolare e globalizzato del pianeta, produttore di scarpe sportive. Dimenticavo, americano, americanissimo. Al di là di un semplice espediente pubblicitario col quale racimolare denari, il buon Clint vuole forse dirci altro? Vuole forse rivelarci, celatamente e in maniera subliminale (ma poi non troppo), che le miriadi di guerre in Iraq sono solo false scorribande di quartiere? O forse che tutto il mondo è già da tempo sussunto ad una realtà di mercato imposta e ad una politica culturale espansionistica? Che ad essa sia sottomessa anche quella parte di mondo che pur le si dichiara ostile, come se il mondo seguisse una direttrice progressistica che inevitabilmente ingloba tutte le civiltà? Ciò che sicuramente possiamo cogliere da questa scena è la consapevolezza che anche la guerra sia un esperimento ideologico, rivolto tuttavia a coloro i quali la subiscono mediaticamente, cioè noi. E che magari chi combatte a Bagdad, sul fronte soprattutto iracheno, non lo faccia, come si dice, per sventare il pericolo americano, ma semplicemente perché pagato, perché anch’esso mercenario (il che corrisponde a dire che gli Americani non combattono di certo per portare laggiù la democrazia). Solamente ciò ci permette, se non di riabilitare il film, comunque di applicarvi una sorta di sospensione apofantica, data l’impossibilità di poter dare un giudizio univoco sulla guerra e le vicende narrate. Ma non si rilassi troppo, maestro Eastwood. Non viene di certo assolto. La sua sentenza è solo rinviata.

Gabriele Santoro

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