IL BIASIMO DELLA CULTURA (su “American Psycho” di Mary Harron)

Povero Pindaro! A volte si affibbiano a personaggi molto raccomandabili antonomasie fuori luogo. I suoi apparentemente incoerenti balzi testuali erano semplicemente frutto, come appurato dalla onniveggente filologia, della concezione di coerenza testuale e intratestuale diversa, a quei tempi, dai giorni nostri. E proviamo per un attimo ad assumere il punto di vista del nostro povero Pindaro e volare da un contesto cinematografico all’altro. Contesti legati tuttavia da un filo rosso comune, tematico, referenziale. Che sembrano non collimare a primo acchito ma che rivelano congruenze notevoli. Abbiamo parlato nella nostra ultima analisi del film dell’anno, Birdman. Abbiamo avuto modo di analizzare l’ambito artistico della recitazione, detronizzandola a tal punto, sia essa cinematografica o teatrale, da sottrarle ogni aura di sacralità culturale. Non si è parlato semplicemente della morte dell’arte, ma ci si è posto il blasfemo dubbio che l’arte non esista affatto, o per lo meno non come l’abbiamo sempre concepita noi occidentali. Non rappresenta affatto emancipazione, né svincolamento dalle facezie con cui l’ignoranza ci affligge, né tantomeno catarsi (fino a prova contraria, del resto, quest’ultima è dominio della sola religione). L’arte, in quest’ottica, è invece portatrice sana di facezie stesse. Di vacuità, verrebbe da dire, di inutilità. Nell’epoca del post-consumismo ormai ibernato, l’arte rappresenta il superfluo per eccellenza, il materialistico come indirizzo intellettualistico di pensiero. Nulla sembra far discostare il sempliciotto che non va al teatro dall’imborghesito intellettualino da strapazzo che si pavoneggia di andarci mensilmente. Nessuna discriminante a favore insomma, se la cultura artisticamente impegnata rimane questa qui.

Colleghiamo adesso questa premessa al film di oggi, un film del 2000 (ormai Paleolitico, ma periodo cinematograficamente fertilissimo): American Psycho, di Mary Harron. Il film racconta di uno yuppie di Wall Street, il quale consuma le sue giornate tra oli tonificanti, creme purificanti, droghe e crimini efferati. Ci si chiederà cosa possa far convergere il nostro preambolo con un film dai toni invettivi nei confronti del balordo, sfiancante e frustrato mondo della finanza. Il filo conduttore è la passione del protagonista nel film, vale a dire la musica. E non un genere qualsiasi, ma la musica rock. Ma fermiamoci un attimo. Ciò che più stordisce del film è l’abbinamento quasi indigesto e senz’altro straniante (per noi post-moderni inclinati e appiattiti ad una sola sottocultura mondiale come quella anglosassone) di sangue e acculturamento. Infatti il protagonista del film, magistralmente e paurosamente interpretato da Christian Bale, prima di uccidere rivali di lavoro o prostitute senza alcuna reale motivazione, le indottrina sfoggiando la sua appassionata e passionale cultura musicale. Verrebbe quasi da pensare, per tutto il film, che un intenditore come lui debba e possa permettersi di fare di tutti carne da macello per via della sua incommensurabilmente più alta levatura culturale. E difatti rimane per tutto il film una lotta spregiudicata e morbosa contro individui dai costumi non proprio irreprensibili. Ma ci si rende conto col tempo che non si tratta di un punitore o giustiziere della notte. L’uccisione di stampo maniacalmente ritualistico che marchia ogni sua vittima conduce lo spettatore a pensare che sia un continuo delirio causato dall’ambiente che lo circonda, fatto di sgambetti, ghigni e pugnalate mascherati da convenevoli di circostanza. Fatto, soprattutto, di una competizione tutt’altro che sana (ammesso che una sanità di competizione esista al mondo). D’altro canto, però, il nostro protagonista non è affatto, come detto, esente dalla vanità che assilla il suo mondo. La palestra quotidiana, l’elenco di tutte le sostanze di cui cosparge il corpo, il sesso autocelebrativo ne sono la conferma. A proposito: le posizioni sessuali ostentate nel film sono anch’esse funzionali alla causa del protagonista. Egli non guarda mai in viso le donne con cui consuma rapporti, e piuttosto preferisce guardare sé stesso allo specchio durante l’atto. Il narcisismo che trapela da queste scene, portato all’esasperazione da fotogrammi nei quali si pone in tensione muscolare mostrando a sé stesso quanto grosso abbia il bicipite, dimostra come anche il sesso, in quest’ambito, diventi puro esercizio autoreferenziale, autoerotico dunque. E fa pensare molto il fatto che a quindici anni di distanza dall’uscita di questo film un certo stile di vita narcisistico, capillarmente ramificatosi in ogni ambito esistenziale, abbia travalicato gli argini del solo mondo finanziario preso in analisi nel film. Anche il più misero abitante del più misero paesino dimenticato dal mondo intero soffre delle stesse sindromi del protagonista del film (crimini esclusi?). Ecco allora svelata ancora una volta la funzione tutt’altro che salvifica dell’arte, sia essa musica, come nel caso di American psycho, sia essa teatro o cinema. L’arte dovrebbe affrancare dalla superficialità delle questioni mondane, dai chiacchiericci di borgate, dai falsi problemi sbraitati come apocalissi. Dovrebbe affrancare dall’ignoranza, nell’accezione più deteriore del termine (non quella dell’umile lavoratore). Ma non lo fa, perché, come il protagonista del film, anche noi fruiamo arte solo con spensieratezza, anche se con tutta la passione di questo mondo. Come pretendiamo che l’arte ci modelli o che si riesca ad introiettarla se andiamo al cinema, a teatro o ad un concerto con l’idea di staccare la spina della routine quotidiana e riattaccarla una volta finito tutto? Subiamo l’arte, non la viviamo pienamente. Forse anche a causa della politica che si ostina ancora, anche se non più partiticamente ma ideologicamente, a propinare solo certi modelli preconfezionati e spacciati per bandiere culturali (si pensi a Benigni e Fo) e a lasciar cadere nell’oblio tutto il resto. Magari bisognerebbe riproporre un’arte più selettiva così da far comprendere che quella spina, anziché essere staccata, andrebbe potenziata e saldata ancor di più. <<La cosa più triste è dire di andare a teatro per non pensare a niente…!>>, dice il grande Bergonzoni. Se non si vuol pensare a niente, si dorma pure! Ma l’arte deve far pensare, eccome! E perfino l’intrattenimento deve farlo, altrimenti si inganna il pubblico. Che non è sovrano di nulla e non deve peraltro esserlo, dovendo invece servire l’arte, anche se, come detto, non passivamente. L’arte ci scivola addosso come fosse acqua di primavera, siamo ad essa impermeabili. E l’indifferentismo culturale comincia già un attimo e mezzo dopo la fine della fruizione: aderenza zero!

Passiamo adesso ad analizzare l’ambito strettamente musicale. Il protagonista del film sembra rivelarci la pura verità su quello che è considerato erroneamente il genere musicale più controtendenza, più anticonformista, il rock appunto. Difatti, per chi non l’avesse ancora compreso, il rock subì già tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta una tremenda metamorfosi che lo condusse a divenire fenomeno di massa. Gruppi come i Guns ‘n Roses, i Queen, gli ultimi ACDC e gli stessi Rolling Stones non sono altro che la massima e più riuscita espressione di quel pop-rock (nell’accezione di “popolare”) che, pur partendo da una dimensione settaria, avanguardista e sperimentale, approda ad un consenso universale, acquisendo uno statuto culturale identificativo di un’epoca, di cui è inno, colonna sonora, non di certo lotta al sistema culturale di tendenza. E la lista di falsi idoli musicali che si rivelano essere solo vitelli d’oro va ben oltre: vi fanno parte mostri sacri come il musicalmente geniale Phil Collins. E ad essa noi potremmo aggiungere anche gli intoccabili Pink Floyd, i quali, lanciati nell’autostrada del genio da un vero mostro sacro della sperimentazione musicale e della metamorfosi elettronica del sound pop anni ’60 britannico, vale a dire Syd Barrett, hanno preferito ammorbidire i toni facendoli scemare verso il commerciale (seppur non nel senso assoluto del termine, naturalmente). Tuttavia costoro si salvano dalla baraonda della massificazione (non solo commerciale) degli albori degli anni ’80, rei quest’ultimi di impersonare un gusto musicale tronfio e magniloquente, di una magniloquenza violenta (non di certo lirica, propria dell’opera). E negli anni dell’inizio di una formale e formalizzata distensione diplomatica tra polo occidentale e polo sovietico, l’Occidente in realtà getta tacitamente le basi di un futuro rafforzamento del consenso culturale e ideologico agguantando il rock, strumentalizzandolo e identificandolo come proprio genere musicale. E altrettanto palese è la motivazione per cui il protagonista del film sia un ascoltatore di quel genere musicale e che non citi assolutamente, invece, il buon Syd Barrett per esempio.sydbarrett Il mondo dei rockettari bestemmiatori e insudiciati, in lotta contro tutto un mondo padronale, è terminato già da un pezzo ed è anzi stato da quest’ultimo assorbito ed introiettato. Succede dunque che un individuo corrotto, criminale, soverchiatore, pusillanime, omicida e ingordo di denaro e sesso ascolti la musica migliore degli anni Ottanta (Whitney Houston a parte, ad essere sinceri). La musica pop insomma sembra assumere antitetiche sfaccettature: è pop la musica disco degli anni Duemila come lo è il calderone rock di retaggio ottantino. Ed essa non rispecchia affatto la condizione giovanile del tempo, ma, annichilendo ogni democraticità di parata, è giostrata dall’alto, dai poteri forti responsabili della mediazione culturale. Da chi la cultura musicale la somministra illudendoci che possiamo pur sempre scansarla.

In quest’ottica sembra sollevarsi un polverone di straniamento percettivo. Cosa sia arte, cosa non lo sia. Se un fenomeno di massa riesca ad essere fenomenologia anche artistica o se non lo possa mai essere aprioristicamente. Tanti insomma gli interrogativi. E la risposta sembra scivolare su una doverosa e prevedibile conclusione: è come se una certa cultura (sia essa musicale, sia essa teatrale o cinematografica) non riuscisse a sollevarci dalla terribile perturbabilità d’animo e anzi ci sobillasse alla violenza di carni, o anche solo mentale o autodistruttiva. Il rock, in questo caso, come musica diabolica. E un vecchio detto recitava che senza saper nulla si vivesse meglio. Noi pensiamo che in un mondo di furbi e cretini di ogni età l’imperturbabilità serva come acqua nel deserto. Dunque l’invito potrebbe essere quello di schivare altezzosamente ogni forma di cultura monodimensionale e popolare (nel senso di massificato) e cercare altro che possa davvero sorvolare sulla vana mondanità.

Piccolo commento stilistico, infine, al film. Il riferimento narrativo al finale di Fuori orario di Scorsese sembra essere chiaro. Difatti in entrambi il protagonista entra in un vorticoso circolo di persecuzioni e inseguimenti, deliri e sogni. E particolare attenzione va riservata alla scena abbastanza singolare in cui il personaggio interpretato da Bale uccide l’ultima prostituta lanciando dal terzo piano una motosega e colpendo fortunosamente la donna. L’avvenimento è abbastanza inverosimile, ma è funzionale a consegnare allo spettatore il dubbio che quegli avvenimenti non siano veri (non scadendo però in un gratuito e patetico finale ad effetto da film d’azione di oggi) e che siano frutto di una nevrosi maniaco-compulsiva del protagonista e dunque di una sua visione. E qui sta la chiave di lettura del film: qualora fosse una sua allucinazione, allora la sconfitta del protagonista sarebbe totale, definitiva, doppia. Ciò che fino a quel momento lo aveva reso un titano, pronto ad effettuare sciacallaggio in un mondo, quello di Wall Street, di sciacalli, ciò che insomma lo aveva reso un primus inter pares, adesso si rivela essere nient’altro che un desiderio delirante. Frustrato, represso, per questo continuamente immaginato. Lo sciacallo retrocede a gazzella e da carnefice, dunque, diventa misera e commiserabile vittima, costretta a recitare a sé stessa monologhi e apologie di cantanti e stelle della musica. Ridotta a non poter espiare la propria foga ritmata a tempo di rock. Ridotta ad una mortificante solitudine, anche di fronte ai propri orrori.

Gabriele Santoro

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