LA MORTE DI MATUSALEMME

Sicilia? Quale Sicilia? Esiste ancora una terra identificabile con tutto quanto di peculiare sia stato accostato a tale regione nel corso dei secoli? Ed esiste ancora nel mondo una terra che possa davvero essere considerata portatrice sana di una qualche unicità culturale ed etica? Da questi quesiti bisognerebbe partire ogni qual volta ci si accosti ad un’opera (in questo caso un lungometraggio) che indaga le dinamiche di pensiero di un popolo territorialmente circoscritto. Prendendo in esame il nuovo film del siciliano Francesco Lama, balza subito agli occhi l’impossibilità di approcciarsi ad un prodotto cinematografico in modo usuale. I cineasti della nostra terra si limitano infatti, oramai, alla sola ed incondizionata esaltazione dei nostri luoghi. Un pregiudiziale elogio, superbo e traviante, di una solo presunta condizione di superiorità culturale e soprattutto etica. Il film in questione, I Siciliani, tenta purtuttavia di fugare ogni fuorviante luogo comune, analizzando la cultura popolare del Siciliano, se non con verace critica, con una comunque decisa sospensione di giudizio. Il protagonista, disoccupato storico, comincia a scrivere un libro sui suoi corregionali, sottovalutando forse la questione e credendo sia una matassa da poter sbrogliare in men che non si dica. Col tempo, dopo parecchie interviste a personaggi famosi e non, comincia a realizzare che ciò che dovrebbe caratterizzare positivamente un intero popolo è per lui fonte di disgusto nauseabondo. La Sicilia, la vecchia e unica Sicilia, fatta di identitari “scrusci” di carretti, di convinzioni, di ossessioni maniacali, di totale rassegnazione celata sotto urlii da bar solo apparentemente titanici, di lassismo sbraitato, di azione silente, di mediocre millanteria per un passato glorioso di cui in realtà non si è stati protagonisti, questa Sicilia qui sembra creare inaspettatamente profonda repulsione nel protagonista, che infine maledice lo stesso libro da lui scritto. E proprio il tema della maledizione lambisce tutta la narrazione: in parecchi momenti del film si ha come l’impressione che il protagonista venga dannato da una qualche entità superiore, in quanto reo di voler trascendere gli umani limiti e voler sondare l’insondabile, vale a dire la nostra terra (ne è un esempio la sequenza nella quale delira difronte all’ennesima e quasi infondata esaltazione gratuita della Sicilia da parte di un paesano). Le categorie di pensiero alla base della nostra sicilianità, sembra voler asserire il film, vanno apprese inconsciamente e passivamente, e qualora le si indaghi con cognizione di causa e con coscienza critica, finiscono per condurre all’instabilità psichica.

Questo è il nostro film: una critica all’inflazionatissima e boriosa esaltazione del carattere di noi Siciliani. Una matura presa di posizione del regista, che consegna allo spettatore un’alternativa chiave di lettura del film: il siciliano medio non è nessuno dei personaggi ritratti nel film, ma è il protagonista stesso, che dall’alto del suo amore per la scrittura crede di poter svoltare e scrivere un libro che lo faccia diventare finalmente benestante. Il classico atteggiamento facilone del Siciliano, che crede di spazzare via ogni cosa gli capiti a tiro, ma che con la stessa sveltezza decisionale diviene inerte e improvvisamente rinunciatario, come se il disinteresse finale fosse direttamente proporzionale all’entusiasmo iniziale.

Abbiamo elogiato la maturità critica del film, inusuale per una produzione locale. Tuttavia ci sentiamo di fare un ultimo passo in avanti, ancora oltre il finale tra l’onirico e lo spirituale, passando per quello spiraglio che il film sembra comunque mostrarci. Bisognerebbe indagare antropologicamente il Siciliano medio, ponendosi difronte ad un unico fondato quesito: è davvero dotato, oggi, di una sua esclusività caratteriale? Noi crediamo che la globalizzazione abbia livellato ogni popolo verso un’inferiore condizione. Anzi, infima. Nel nome del progresso, abbiamo accolto ogni diavoleria sia entrata nella nostra società persino in paesini come Agira. Non esiste più quel naturale limes che faccia da barriera culturale; siamo, anche noi paesani, “connessi globalmente, ma disconnessi localmente”. E se il modello globalizzante potrebbe pure avere ragione di esistere in un contesto urbano (?), sovrapporre un modus operandi et cogitandi prettamente cittadino ad una dimensione paesana crea invece un cortocircuito intellettuale ed intellettivo. Ecco allora che il discorso di Buttafuoco, nel film, sulla saudade dei Siciliani nel mondo sembra svanire sotto le macerie di un mondo che non esiste più. Gli “scrusci” di carretto sono solo ricordi da rispolverare in musei adibiti all’immobilismo culturale, le piazze sono sempre più vacanti, gli incontri vis-à-vis vengono soppiantati da blateranti dibattiti su circuiti virtuali, le maniacali ossessioni divengono crisi, complessi di adattamento, incapacità decisionali, in ultima analisi sociopatia (questo processo ha fatto sì che persino delle patologie prettamente cittadine si insinuassero nelle nostre realtà paesane). Il Siciliano, con i mezzi odierni, vorrebbe abbracciare il mondo, un po’ come un diciottenne appena patentato. Ma si limita, invece, a sbandierare convulsamente e compulsivamente qualche adesione o approvazione tramite i socials (si scrive così?). Esistono i vecchietti nei circoli delle piazze, è vero. Ma sono pur sempre vecchietti, e, sic stantibus rebus, finiranno la loro esistenza spazzati via come granelli di sabbia nel deserto culturale. E cosa rimarrà? Solo ciò che ci siamo conquistati, manco fosse il Vello d’Oro, dopo un’inutile corsa verso l’adeguamento al mondo. Che, tuttavia, continuerà a correre sempre più veloci di noi. E noi ad inseguirlo, e così, ricorsivamente, si continuerà a fare per il resto dei giorni che ci tocca vivere in questo mondo così beceramente ignorante. Questa Sicilia qui, e soprattutto questa Agira qui (parlando di ciò di cui abbiamo diretta conoscenza), il film sembra presentarla timidamente, in piccoli sprazzi di riprese. Un mondo ormai sommerso, un “matusalemme culturale” morto e sepolto. E l’emblema di questa agonizzante dissolvenza etica, quasi indirettamente e involontariamente, è uno dei tanti nostri compaesani presenti nel film nella veste di comparsa, il quale ci ha lasciati qualche tempo fa. Un anziano signore dai tratti fisiognomici marcati, un vero e proprio vegliardo. L’unico, nel film, ad aver compreso senza pleonastici giri di parole la condizione del vecchio Siciliano medio (dirà in una scena «Siciliani, accussì è, su vi piaci»), tuonando nel silenzio generale di una piazza che già appare fantasmatica. Anche lui andrà via, realmente, portandosi dietro un pezzo di quell’Agira che fu, e che oramai appare sempre più un surrogato, peraltro scadente e arrangiato, di realtà cittadine a noi aliene. E il processo appare irreversibile: l’Agirino, e il Siciliano in generale, non sarà più diverso da nessuno. Né migliore né peggiore (il che gli conferirebbe comunque una certa esclusività). Uguale, terribilmente uguale al resto del mondo, perfettamente allineato e coperto. Del resto, si sa, l’uguaglianza non è mai stata un valore.

Gabriele Santoro

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BUONO A CHI? (Su “Anime Nere” di Munzi)

Fratello silenzio. L’unico vero alleato in un periodo di frastuono bellico. L’unico antidoto a questa terribile e pandemica fobia dell’anonimato in un’epoca che sembra poter dare, molto pericolosamente, voce a tutti. A troppi, verrebbe da dire. L’unica testimonianza di fede in un mondo che comunque ci accoglie, ma che sembra confonderci. L’unico strumento di fine intelligenza, per chi sappia coglierlo, apprezzarlo, ascoltarlo. E tale indirizzo di mutangherìa abbiamo perseguito ormai da tempo in tale sede. Ci si accorge ogni giorno di più che il sovraccarico di informazioni, ipertroficamente e convulsamente scaraventateci addosso, creano un inflazionatissimo cortocircuito intellettuale per il quale sensatezza e stupidità mediatiche vengono livellate e poste con egual considerazione in uno stesso calderone. Ecco allora che ciò che qui scriviamo, seppur senza vincoli ideologici e con liberi spunti culturali, ha esattamente lo stesso valore mediatico e informativo di una qualunque esternazione o di qualsivoglia pensiero immolato al sacro altare dei social networks (si scrive così?). Il silenzio, dicevamo. L’unico modo per sentirsi narcisisticamente più ‘sperti degli altri. Affiancato al minimalismo, aggiungiamo. Orientamento esistenziale da sempre seguito dagli ‘sperti di cui sopra. E in un salvifico piano di silenziosa meditazione che ha pervaso da tempo il nostro sito, inseriamo quest’oggi una parentesi di cervellotico blateramento, ma a buon fine. Perché desideriamo parlare di un eccezionale film del 2014. Per la regia del buon Ciccio Munzi, Anime Nere.

Film italiano, italianissimo. Epico ma intimo, a metà tra un’opera declamatoria e una appena sussurrante. Radicato in una dimensione claustrofobicamente regionale (se non addirittura provinciale) ma ispiratosi a categorie drammaturgiche universali. Anime Nere ci restituisce un cinema che non vedevamo da tempo, rinnovando il noir in funzione ipertragica, non dimentico tuttavia della magnifica e recente lezione di Garrone (parliamo naturalmente del Garrone più rivolto all’onirico, come in Reality). Si badi bene: in Anime Nere non vi è nulla di surreale o surrealistico, ma ciò che balza agli occhi è un’impostazione narrativa contaminata nelle sue sostanziali componenti, divenendo continuamente altro da sé. Esteticamente, drammaturgicamente parlando.

Stiamo parlando del miglior film italiano degli ultimi tempi probabilmente (e il cinema italiano, ormai da un paio di anni, ci sta viziando con del cinema di qualità che non sempre viene lodato a sufficienza: Educazione Siberiana, Il capitale umano, Non essere cattivo, Il racconto dei racconti, Veloce come il vento). Se ad inizio nuovo millennio si poteva parlare di uno spartiacque cinematografico rappresentato dal capolavoro di Sorrentino L’uomo in più, adesso si può già parlare di un prima e un dopo Anime Nere. Il film narra le vicende di una famiglia malavitosa proveniente dalla Calabria implicata nei loschi affari edilizi del Nord Italia e nel traffico di stupefacenti. Collaterali vicende svoltesi nella terra natia portano alcuni membri della famiglia a tornare al Sud, innescando una spirale di sangue e violenza. Fin qui niente di nuovo. Una trama trita e ritrita di coppoliana memoria che vede protagonista una famiglia alle prese con i “doveri” e i necessari adempimenti della cupola. Ma il finale del film, esclusivo nella sua potenza tragica, irrompe terribilmente. Uno dei tre fratelli decide, dopo la morte di alcuni cari, di porre rimedio al terribile andazzo in maniera estrema, recidendo ogni legame familiare e uccidendo il resto della sua famiglia.

Esistono a nostro avviso due tipologie di film. Quelli che consegnano una chiave interpretativa, di qualunque levatura intellettuale e culturale si tratti, che pertiene comunque ad un ambito strettamente filmico; e quelli, poi, che sembrano trascendere il limite della semplice pellicola da consumare in una saletta cinematografica e che, impregnandosi di letterarietà, colti modelli e visioni ampie, sia a livello antropologico che ontologico, entrano a pieno diritto nel novero dei capolavori (non limitato al solo ambito della Settima Arte). Anime Nere appartiene di certo a quest’ultima categoria, palesatasi in realtà negli ultimi minuti del film, quando da una semplice storia di regolamenti di conti tra gente dai costumi non del tutto irreprensibili si passa ad una liricissima uscita di scena del protagonista assoluto, sino a quel momento, invece, semplice comprimario. E l’eroe tragico, approdato alla cosiddetta anagnorisis (‘riconoscimento’ e ‘presa di coscienza intellettuale’), alla maniera edipica, nella più sconcertante solitudine, decide tuttavia, diversamente dal riferimento drammatico di Sofocle, di agire con raziocinio, seppur con le lacrime agli occhi. È un genio a invadere la mente del nostro protagonista, quasi di matrice divina (emblematica a tal riguardo la sequenza in cui l’uomo beve una soluzione di acqua, medicinali e polvere raccolta da un simulacro, a testimonianza della sua strenua pietas). Una ferrea logica del calcolo. La computazione delle nefaste conseguenze per la famiglia, qualora tutti rimanessero in vita, supera di certo ogni sentimento di affetto e legame fraterno. Il Male, geneticamente insito nel seme familiare, va estirpato sin dalle sue radici. Nessuna ingombrante pietà, nessun compromesso. Solo ciò che è necessario. E applicando un ulteriore raffronto con l’universo tragico della Grecia del V secolo, il protagonista finale si palesa nella doppia veste di eroe (di certo non antieroe o antagonista) e di organon risolutore, di deus ex machina. L’inettitudine che delle volte attanaglia gli eroi tragici, capaci di agire, quando riescono a farlo, solo sulla propria persona, stringendo il campo di focalizzazione, persino in maniera claustrofobica, su un solo individuo, in questo film diviene titanismo. Un film audace insomma, apparentemente bruto, di sicuro non politicamente corretto.

Abbiamo visto come Anime Nere rappresenti un solenne incontro tra realismo narrativo e romanzata convenzione drammaturgica. Tale commistione è funzionale ad accattivare un pubblico più vasto (?), ma la finalità ultima è di sicuro quella di creare un genere novello. Perché, seppur ancorato alla tradizione e calato interamente in una realtà storica, risulta infine un fiume in piena. Capace insomma di parlare dell’uomo prima ancora che del determinato ambito in cui le vicende si svolgono. Eppure riscontriamo una critica feroce al sistema imprenditoriale del Nord Italia, che non subisce, come si potrebbe pensare a primo acchito, la criminalità organizzata del Sud, ma la strumentalizza e la custodisce gelosamente. Appalti truccati e speculazioni edilizie a servizio di quello che sarà uno degli eventi più smargiassi e magniloquenti della recente storia italiana: l’Expo. E l’invettiva si materializza nell’unico modo possibile al fine di non renderla stucchevole: accennandola appena. Una critica formale insomma, senza altri blateramenti, derivante dalla presentazione oggettiva dei soli fatti in cui lo spettatore coglie lo scatologico marciume. Una denuncia peraltro ante litteram che precede ogni successiva indagine intrapresa sui loschi affari edilizi degli ultimi anni. Ante Mose, per esempio, con tangenti e finanziamenti illeciti ad esso annessi. Munzi insomma mischia le carte, guardando alla cronaca, per poi accantonarla e raccontare la storia di una famiglia. Con una visione a tratti deterministica, quasi zoliana. Perché il sangue sembra non mentire mai di fronte alle proprie origini, e se Milano rappresenta una sicura via di fuga per i due fratelli emigrati al Nord, il fratello rimasto in Calabria riceve pressioni insostenibili e, seppur evaso sin da piccolo dal mondo del delinquere, vi si ritrova catapultato a causa del figlio. Genetica predisposizione, innata tendenza, esposizione alla morte. Ecco giustificato il suo estremo gesto.

Nel mondo della post-globalizzazione (in cui tale fenomeno sembra aver raggiunto uniformemente ogni angolo dell’Occidente, dal paesino di mille anime sino alla grande città, non permettendo l’esistenza di alcuna “biodiversità sociale”), Anime Nere rappresenta un unicum antropologico, prima ancora che estetico. Un ultimissimo sguardo rivolto ad un mondo che non esiste più, che persino nell’ambito della criminalità organizzata ha strenuamente resistito ma che ha dovuto fare i conti con l’inevitabile inghiottimento da parte di altre forme di potere. Un nucleo così apparentemente incontaminabile come quello del crimine organizzato fagocitato da una particolarissima forma di progresso. Onnipresente, quest’ultimo. Terribilmente onnipotente. Chi rimane incorrotto nell’opera di Munzi è colui il quale è più spietato, colui il quale si presenta ancora allo stato grezzo, non lavorato. Seppur nell’asfissiante mondo della ‘ndrangheta, possiamo comunque segnare una netta linea di demarcazione tra un coerenza morale incarnata dal fratello più gagliardo e spregiudicato (interpretato da un grandissimo e rivitalizzato Marco Leonardi) e un tradimento genetico di fondo perseguito dal fratello emigrato fissamente al Nord (interpretato invece da un misuratissimo Peppino Mazzotta). La famiglia, strettamente ancorata al suo fondale più congeniale, vale a dire la terra natia, sembra sprofondare nelle sabbie mobili di un mondo paradossalmente più grande di lei (al peggio non c’è mai fine!), nelle paludi nordiche. Come un’azalea sradicata e impossibilitata a germogliare in un terreno non suo. E la risposta a tale inadeguatezza intrinseca non può che essere l’atto di forza di cui sopra. Esercitato contro il mondo, contro l’insistere del tempo e la sua dittatura, contro il proprio sangue. Che non mente mai, come dicevamo. Prendiamo infatti in considerazione, per concludere, una ricerca di Paolo Martino sull’etimologia del termine ‘ndrangheta. Secondo lo studioso deriverebbe dal greco ἀνδραγαθἰα (andragatìa), indicante la personalità dell’uomo valoroso. Acquisendo col tempo un’accezione sempre più sinistra e ferina dell’ambito semantico del valore, la radice del termine è passata a identificare un corrispettivo verbo: ‘ndragarsi, vale a dire infuriare. E il protagonista finale, il deus ex machina dell’intreccio, il fratello “buono” insomma, assume entrambe le sfumature etimologiche del termine preso in esame. Egli è un galantuomo, è un uomo d’onore (nella sfumatura benigna del sintagma), un onesto lavoratore ma anche una polveriera pronta ad innescare il peggio, un represso, un pericoloso e mai testato assassino. Argomento usuale nel cinema, quello della latenza dell’ira e le sue conseguenze. Da Gli spietati sino a A history of violence. Ma questa volta l’esperienza filmica ci coinvolge personalmente. Perché è una realtà molto più prossima, che ci appare, seppur parossisticamente stirata al limite del reale, più verosimile del previsto.

Questo è Anime Nere. Una magnifica replica, e meno pericolosamente pretenziosa, al cinema iperrealistico (riduciamo la questione ad un solo, esilissimo e ridicolo aggettivo, come osano fare i più grandi critici!) di Iñarritu. Una replica inoltre a quella parte di cinema italiano (soprattutto rappresentato dalla commedia, genere, tra tutti, maggiormente dipartito) che crede di intrattenere il pubblico facendolo tuttavia riflettere sulla condizione di noi italiani medi e… bla bla bla. Tra un chiacchiericcio e l’altro, tra sproloqui cinematografici di ogni genere e registici deliri di onnipotenza, c’è chi, come Munzi, preferisce parlare di morale, ancor prima che di sciatta e miserrima etica. Senza sbraitare, nel più feroce silenzio.

 

P.S. Il film è tratto da un romanzo. La questione letteraria, tuttavia, non deve pertenere all’ambito di una recensione cinematografica.

Gabriele Santoro

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UNA FORMALITA’ PURA (su “The Revenant” di Iñàrritu)

Al rogo Slanislavskij! Il metodo, con le sue radicali degenerazioni formali e performative, ha lasciato strascichi pesanti nel mondo del cinema. Roboante, per carità. Scenicamente impattante. Mediaticamente risonante. Ma funzionale, a volte, come la ricotta sul sugo di pomodoro fresco. Può senz’altro rendere più gradevole il sapore, ma nasconde quello reale. E allo stesso modo questo metodo risulta il più delle volte un tappabuchi, un rimedio temporaneo affinché un’interpretazione risulti più ammiccante ma che non conferisce nessun valore aggiunto al talento recitativo. Che si ha o non si ha. E le cui lacune non possono essere mascherate da una comunque strenua disposizione d’animo al patimento corporale. Il metodo e le sue correlate esasperazioni non aggiungono nulla a quanto già possa dimostrare, di suo, un attore. Anzi, condiziona a volte negativamente l’esito del giudizio della critica quando la fase preliminare alle riprese, in cui l’attore lavora per calarsi totalmente nella parte, viene sbandierata mediaticamente così da farne carne da macello. Pensate che importi a qualcuno che un attore soffra realmente le pene dell’inferno, che si arrechi volontariamente e appositamente alcuni traumi per apparire più credibile? Risulta anzi fin troppo facile interpretare il ruolo di un rinoceronte se lo si è già per natura. È da professionista, invece, sapersi travestire da rinoceronte, in modo verosimile. Anche il mondo attoriale ha dunque subìto una lenta metamorfosi, seguendo una direttrice di semplificazione artistica spacciata per pratica autorale. E la baraonda mediatica causata dal trapelamento, per così dire, di aneddoti riguardanti le riprese di The Revenant, il film di oggi, non hanno sicuramente giovato ad una certa imparzialità di giudizio. Indulgenza pietistica e commiserante o detrazione incondizionata hanno dominato tutte le recensioni relative a quest’ultima fatica di Iñàrritu, dicendo tutto e niente. Cercheremo allora di dire la nostra attraverso considerazioni epurate totalmente da ogni forma pregiudiziale, sia essa concernente la trama, sia essa relativa all’interpretazione di Di Caprio. Per quanto ci riguarda, quest’ultimo avrebbe pure potuto godere di migliori o peggiori condizioni; avrebbe potuto essere sottoposto a restrizioni alimentari o meno; avrebbe potuto recitare negli Studios hollywoodiani o tra i ghiacci. Ma a noi non importa di questi atteggiamenti marchettari ed erotici atti a sovraeccitare lo spettatore o più semplicemente vendere un prodotto. Per quanto ci riguarda, al suo posto avremmo potuto vedere pure l’umilissimo Sandro Ghiani. Impassibili, giudicheremo esclusivamente il film.

Western, dai toni tragici, lirici, documentaristici, sadomasochistici, onirici. Che guarda ad Herzog, a Gibson, a Costner, e che sbircia Cronenberg e Mallick. Ma che risulta, molto semplicemente, iñarritiano. Un’opera ancora una volta personalissima di un regista che, novello Faust, sembra aver contratto un patto col diavolo così da poter acquisire un’abilità registica unica nella storia del cinema. Almeno nel suo genere. Uno stile che sembra cogliere solo il meglio delle possibilità che la nuova era digitalocratica propone. Molto kubrickiano, in tal senso. E questo film non si esime dal presentare una messinscena limata sino a qualche tacca prima del nauseabondo, ricca ma non opulenta. Si rivedono pratiche ormai da tempo bandite nel cinema di oggi, fin troppo colpito dalla barberie di montaggi che il più delle volte rendono qualunque film un frenetico spezzatino: in primis, per esempio, la panoramica, sfruttata non per le riprese dei meravigliosi paesaggi (per quelli vi sono inquadrature fisse) ma per i campi e controcampi, e che ha la stimolante funzione di conferire maggiore tensione alla macchina attoriale e di conseguenza allo spettatore che gode della visione; poi, naturalmente, i lunghi e soliti piani-sequenza. A proposito di questi ultimi, parleremo dell’aspetto che più ci ha colpito di The Revenant, che lo rende, probabilmente, un’opera somma per levatura estetica. In Birdman, capolavoro assoluto dello stesso regista, i piani-sequenza creavano un’abnorme pretesa di realistico, corroborata peraltro dalle tematiche teatrali, oltre che cinematografiche. Il continuo inseguimento da parte della camera nei confronti dei personaggi rendeva tutto terribilmente verosimile, sfiorando più volte il reale. In tal senso, si rischiava di far saltare tutti i meccanismi finzionali e rappresentativi, rinnegando l’essenza stessa di “arte” e sfociando in altri inavvicinabili domini che al cinema non devono pertenere. Ma il grande Iñàrritu comprendeva il rischio e disilludeva subito uno spettatore ormai troppo coinvolto nelle dinamiche ravvicinate e maledettamente realistiche. E lo faceva con un artificio tecnico quale quello del superamento di campo della macchina da presa (l’inquadratura scavalca l’ideale linea di unione tra campo e controcampo) davanti ad uno specchio. Lo spettatore, attendendo invano di vedere l’operatore con la camera allo specchio (ipotesi disattesa da un ”ritocco” digitale), viene finalmente rispedito al cinema, con la consapevolezza di vedere semplicemente un film. Rimarcando peraltro il ruolo del regista, considerato come un semplice rappresentatore, adesso detronizzato e privato di quell’aura di arte che sembrava possedere. Allo stesso modo, in The Revenant, il regista segna un solco profondo tra realtà, finzione e rappresentazione. Sin dall’inizio assistiamo a veri lapsi visivi che ci fanno avvertire la grave presenza del medium (la macchina), vale a dire: aberrazioni cromatiche (Iñàrritu riprende spesso in luce, rivolto verso il sole per esempio, violando le norme della grammatica cinematografica e creando quelle fastidiose rifrazioni che si protraggono per tutta l’inquadratura); macchie sulle lenti della camera, siano esse apportate dalla neve o dal sangue dei protagonisti, ma che permangono a lungo per via degli estenuanti piani-sequenza; per non parlare, poi, degli aloni arrecati dal respiro del protagonista, che in una scena conduce addirittura al totale appannamento. E il regista sembra pure giocarci su, giostrando con abilità colori, vapori, nebbie e fumi. Questa volta, però, il movente di questi lapsi è diverso, addirittura opposto. Non si vuole realizzare un film depositandolo in un limbo che non sia né totale finzione, né indubbia realtà (come in Birdman), ma si vuole, sfruttando una tecnica molto elementare, portare lo spettatore a credere nella rappresentazione ma non nella realtà rappresentata. In parole povere: si sa che è un film, perché si nota continuamente la macchina, e di conseguenza si può arrivare a credere che il protagonista possa salvarsi prima di fronte alla furia di un orso e poi dopo essere caduto da una rupe scoscesa. L’improbabile diventa verosimile perché (solo) la sua rappresentazione lo è.

Il noto, in quanto noto, non è mai conosciuto”, diceva qualcuno. Per questo, analizzando il film dal punto di vista tematico, non ci accodiamo a coloro i quali considerano la trama del film la solita storia, trita e ritrita. Noi siamo del parere che non si debba mai smettere di parlare dell’impatto apocalittico che la colonizzazione europea abbia avuto in America ai danni dei nativi; di cui, nel mondo, non si commemora di certo la strage in un apposito “giorno della memoria”… E ammesso che il numero di film narranti questi episodi arrivi a cento, non abbiamo neppure un film ogni millesimo di indiano massacrato. Ci pare un tantino poco! Dunque, che ben venga The Revenant. Il quale, pur essendo una sorta di rifacimento di Uomo bianco va’ col tuo dio, riserva non poche originali sfumature. Innanzi tutto, è un film che potremmo definire provvidenzialistico. Tutto è inesorabilmente scritto. In uno scontro filosofico tra le categorie di necessario e possibile, la verità è solo una: l’uomo non può pensare di trovare la libertà nel luogo in cui regna sovrana l’incontrovertibile necessità, cioè nella natura. Essa è il luogo delle interminabili odissee, delle lotte per la sopravvivenza e della caccia, sia animale che umana. Anche l’uomo dunque, avvezzo ad abitare la natura, a dominarla, ma non a farne parte, ne rimane ripetutamente vittima. Ed ecco spiegate anche quelle apparentemente snervanti inquadrature di panorami mozzafiato. Non sono un mero sfogo di abilità fotografiche (o almeno non solo) ma fanno da contraltare a immagini invece mortifere e violente dell’amata-odiata natura. E tutto ciò non è che la trasposizione su macchina da presa della teoria del sublime di Kant: in sostanza, gli eventi naturali appaiono affascinanti solo se visti da lontano. Un terremoto, una valanga, un’eruzione vulcanica, un orso gigantesco sono spettacoli meravigliosi…ma solo se inavvicinabili. E la natura, in questo film, appare dunque sublime, non di certo bella. E anche quando risultasse utile e quasi rivitalizzante per l’uomo, sarebbe ripugnante (come in occasione dello sventramento del cavallo usato a mo’ di involucro, per uscirne rigenerato il giorno seguente). Lontano da ogni banale idealizzazione della natura, questo film ci riconsegna, alla maniera di Von Trier in Antichrist, l’immagine di un uomo senza una dimora nel mondo. Sia perché a metà tra due civiltà (la moglie è un’indiana), sia perché alla ricerca di un motivo valido per cui vivere (o per lo meno vegetare). Sia esso la vendetta, sia esso l’amore per la moglie, sia esso Dio. Altro leitmotiv, Quest’ultimo, di tutta la narrazione. Comune a bianchi e Indiani, depositari questi ultimi del Suo spirito vitale, ma Che anche un bianco come il protagonista riesce a pregare. Allora lo scontro non sembra essere tra civiltà o razze. È uno scontro, quello del film, esclusivamente tra timorati di Dio e non. Tra personaggi pii, violenti o meno che siano, e “selvaggi” bestemmiatori. Un ritorno allo scontro, atavico nel western, tra Bene e Male, manicheisticamente definito ma non razzialmente identificato. Una piccola rivoluzione nel genere, riprendendo il tema preleoniano della resistenza degli Indiani; ora popolo dannato, ora popolo prescelto quasi alla maniera ebraica. Ed ecco allora che il finale si macchia di sangue fratricida (ci si chiede ripetutamente chi siano i veri selvaggi nel film), ma dello scontro tra Indiani ed Europei…nemmeno l’ombra! Il vecchio, vecchissimo continente sembra aver cercato e trovato un nuovo luogo dove mettere in scena il solito teatrino dell’orrore, sfociato in violenza dissennata (il sangue versato dagli Indiani risponde invece ad una dinamica ritualistica, quasi sacra). E la ricerca di Dio finisce, a nostro personale avviso, nella meravigliosa scena del sogno del protagonista. Gli appaiono la moglie e il figlio, quest’ultimo al centro di una chiesa ormai in macerie. Sogno che rivela la necessità di ritrovare i cari barbaramente uccisi nel nome di Gesù. Ma la ricerca è vana, perché, molto pessimisticamente, la neonata America sembra aver dimenticato Dio (ammesso che l’abbia mai conosciuto) e mandato in frantumi la Chiesa, sepolta tra il mercato delle pelli e le ignobili pugnalate alle spalle.

Esercizio di stile, quest’opera. Non una pura formalità, ma una formalità pura. Un’estetica di puro cinema che si ripercuote come non mai sulla fruizione, la ricezione, la riproduzione e le tematiche dello stesso film. Con una colonna sonora, affidata a Sakamoto, che risulta a sprazzi volutamente irritante e per questo stimolante, e un finale che è una magra consolazione. A proposito: se da un lato infatti il film apre ad un contatto fraterno tra civiltà che sono molto più vicine, per comune destino, di quanto non diano apparentemente a vedere, dall’altro frastorna all’idea che la vendetta possa appagare il protagonista solo temporaneamente. E che, anzi, possa rimanere totalmente solo questa volta, senza neppure lo spirito della moglie, che sembra tragicamente allontanarsi. E allora ecco il genio assoluto di Iñàrritu, che rompe ancora una volta la quarta parete, definitivamente, facendo interagire il protagonista direttamente col pubblico. Ma il lapsus, questa volta, ha uno scopo di identificazione dello spettatore nel personaggio. La solitudine di quel disgraziato non si riduce di certo. Viene invece condivisa. Siamo tutti soli, siamo tutti senza Dio.

Gabriele Santoro

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VIVO MA VEGETO… (su “Mad Max – Fury Road” di George Miller)

Alla voce fantascienza, il nostro personalissimo e aggiornato dizionario del cinema recita: <<genere oramai in disuso, se non impiegato al fine di veicolare messaggi pericolosamente e coattivamente imposti>>. Si dà il caso, tuttavia, che il film di cui parleremo oggi, che è innanzi tutto, per l’appunto, un film di fantascienza, post-apocalittico e distopico prima ancora che un action, rappresenti l’eccezione che conferma la regola. Nella appiattita e appiattente cinematografia fantascientifica odierna, rispondente ad un programma di riassestamento ideologico filotecnologico (e pensare che la fantascienza nasce per scongiurare il tanto agognato mondo della tecnologia! – mostrandone e svelandone le estreme e annichilenti conseguenze), Mad Max – Fury Road è un’inversione di tendenza nel genere che conosciamo. A primo acchito apparentemente maldestra. Ma, completandone la visione, il regista, vale a dire il maestro George Miller, rivela un gusto eccelso nelle scelte ora registiche, ora scritturali. I fasti nefasti di un’infinita rincorsa all’uomo, gli eccessivi orpelli di un’estetica asianeggiante ed estremamente impattante ostentata nella furia di un continuo inseguimento, col tempo lasciano il posto all’essenziale. Il film nel finale si libera di tutta la sua patinata confettura per restituirci solo ciò che più merita di essere impresso nella nostra memoria, cioè il messaggio finale. Tutt’altro che nefasto, questa volta. Tutt’altro che pazzo.

Trama: Max, un ex poliziotto ossessionato dai fantasmi dei familiari che non è riuscito a salvare durante il disastro nucleare, si ritrova quasi involontariamente ad aiutare la disertrice imperatrice Furiosa a mettere in salvo le uniche donne fertili dalla smania procreatrice del capo della Cittadella, Immortan Joe. Fury Road non è un remake, né un sequel dei film della vecchia saga. È piuttosto un rifacimento, una rivisitazione in chiave contemporanea e soprattutto postmoderna. Chiunque abbia visto già solo una sequenza della vecchia saga, coglierebbe al volo l’“accelerazione” stilistica, attoriale e di montaggio che quest’ultimo film propone. Un film che parte a tremila giri, pronto a dover cambiare marcia da un momento all’altro, ma che rimane, sospeso, perennemente sull’orlo del baratro, senza mai precipitare o sottostare al volere dello spettatore e concedergli ciò che desidera. Scalando di marcia anzi, anche se dopo macrosequenze d’azione ininterrotte. Un film che, diversamente dalle prerogative, risulta salvificamente impopolare. In quanto “osceno” sotto certi aspetti (nel senso beniano del temine), stirato ai limiti della sopportazione scenica ed (est)etica. Ed è proprio questa ricalcata e reiterata esasperazione filmica che conferisce alla pellicola la possibilità di divenire altro da sé. Abbiamo qualche tempo fa potuto appurare come l’ultima fatica di Martin Scorsese, vale a dire The wolf of Wall Street, fosse riuscita, proprio attraverso una durata eccessiva e sequenze tacciate di prolissità, a provocare sdegno nello spettatore nei confronti di quel mondo così variopinto ma deleterio e materialista che altrimenti sarebbe risultato ammiccante. E allo stesso modo, Fury Road risulta alla lunga tutt’altro che un film di scorribande automobilistiche. Delocalizzando infatti il focus della narrazione e ponendolo su un’impalcatura action, il grande Miller riesce Ad interloquire ancora meglio con lo spettatore (<<Se nel cinema vuoi dire qualcosa di forte, dilla attraverso il genere!>>, direbbe qualcuno). E la messinscena è perfetta. Il regista dà una lezione di cinema a tutti i registucoli di patetici blockbusters (comunemente definiti “americanate”), da Snyder a Nolan, passando per Bay. Lo stile è volutamente nevrastenico, così come il montaggio, ma nonostante ciò non provoca vertigini o convulsioni, riuscendo piuttosto a definire ogni minimo fotogramma. Assente quasi totalmente il tanto repellente rallenty (eccetto che nella scena della morte di Nux, il che conferisce al personaggio maggiore spessore e levatura), troviamo invece parecchie velocizzazioni, che richiamano il vecchio cinema rocambolesco e funambolico in bianco e nero (primo tra tutti Buster Keaton). Marchiabile come antineorealista, il cinema di Miller è tanto straniante da allontanare, quasi come in un sogno freudianamente esplicato, il tema centrale (che diventa contenuto latente), sovrastrutturandolo con elementi apparentemente secondari (contenuto manifesto) che il genere propone. Un cinema dunque più complesso, che tuttavia mette in risalto le problematiche affrontate più di quanto non riesca a fare un cinema più intuitivo, chiaro, lineare ma per questo banalizzato (la verità è perennemente sotto i nostri occhi, ma coperta da scene barocche che tuttavia non nauseano mai). La struttura del film, dunque, risulta altalenante. In maniera alternata impressionano nel prologo e nell’epilogo i temi trattati, mentre nella parte centrale del film vi è una ricchissima galleria di personaggi, peripezie, mezzi di trasporto e situazioni che possiamo definire, a pieno diritto, visionari. Tali, infatti, sono le auto, “disegnate” genialmente, proponendo autocisterne da duemila cavalli, vetture sportive su cingolato, altre arrangiate a mo’ di porcospini e altre ancora recanti lunghissime aste per l’“abbordaggio” da parte dei Koala. Per poi passare ai fotogrammi che rimarranno impressi nell’immaginario cinematografico collettivo: Max incatenato alla parte anteriore della vettura guidata dal figlio di guerra Nux, quasi a simboleggiare quelle caratteristiche prue delle Navi Dragone vichinghe recanti mostruose rappresentazioni apotropaiche; lo stesso Max, nella stessa circostanza, a fungere da “sacca di sangue” per un convalescente Nux; la mastodontica Doof Wagon, armata di altoparlanti, grancasse e diretta da un allucinante musicista mascherato che non possiede altro verbo che il suono distorto della sua chitarra – lanciafiamme (come se la musica eavy metal fosse parte integrante e indispensabile per le operazioni di guerra); la memorabile sequenza dello sfruttamento fisico inferto alle madri che mettono il loro latte a disposizione di Immortan Joe; lo stesso signore della guerra che, monopolizzando e privatizzando l’acqua, la raziona come fosse una pericolosa e assuefacente droga che provoca dipendenza; e poi la banda dei Koala, sfrenati assalitori dei veicoli altrui, e quella degli assatanati Porcospini; per arrivare alle commoventi sequenze della strenua protezione della borsa contenente i semi biologici da parte dell’anziana signora e del sacrificio (degno di essere chiamato tale, questa volta) di Nux per amore di una ragazza. Proviamo a dedurre adesso, da queste scene cult, un indirizzo di pensiero che Miller, quasi convulsamente e pazzamente, vuole proporre.chitarra

Cauto socialismo. O mancino conservatorismo. Sembrano retorici ossimori, ma celano un imperativo categorico in Fury Road: qualunque sia la forma di governo da cui è retta una comunità, l’unica arma che il popolo detiene è, paradossalmente, il potere istituzionale. Vale a dire che il popolo, dipinto in questo film come una massa informe priva di ogni capacità decisionale (ma per lo meno spudoratamente, dal momento che oggigiorno non ci sentiamo così inermi solo perché crediamo che un post su un social network significhi contare qualcosa in questo mondo), può solo augurarsi che sia un componente del sistema politico ad inaugurare un cambiamento sociale. Da qui ne deriva una critica ad ogni forma di incondizionata democrazia, data l’assenza di organizzazione e addirittura di capacità intellettiva della plebaglia nei momenti di acuta difficoltà. Dunque è il potere stesso, o comunque una sua parte moderata, non dispotica e afflitta da quella tutt’altro che virale malattia chiamata onestà etico-morale, a divenire inaspettatamente lo strumento del sovvertimento statale. Nel film, infatti, la ribellione parte dalla decisione di Furiosa di tradire Immortan Joe e non di certo dall’ultimo componente dell’ultimo gradino della scala sociale. Da qui una miriade di ipotesi interpretative. Miller vuole forse dirci che noi popolo non abbiamo alcuna speranza di destabilizzare l’ordine costituito e che anzi siamo condannati alla passività sociale? O forse vuole indicarci la strada per il rinnovamento, consigliandoci di sfruttare le nostre capacità per entrare nelle trame del potere ma senza rimanerne schiavi, e anzi sovvertendo, una volta dentro, un intero sistema, facendolo collassare dall’interno? A nostro avviso, Miller ha risentito parecchio della sua non acerba età, e ha “semplicemente” voluto ribadire quale sia la più sacra delle nostre potenziali risorse, vale a dire la libertà. Ricordate Monicelli? Ha per tutta la vita sbraitato ai quattro venti quanto fosse deleteria per i giovani la parola speranza. La sua morte, tuttavia, riformula un tantino la sua concezione della vita. Gettandosi dalla finestra dell’ospedale dopo che gli era stato diagnosticato un male incurabile in età ormai avanzatissima, ha mostrato alle nuove generazioni il senso delle sue precedenti parole. La speranza è nociva perché passiva, solo in potenza, preventiva insomma. La sua diatesi attiva corrisponde all’azione naturalmente, finalizzata esclusivamente al mantenimento della libertà, senza alcun compromesso. E allo stesso modo Miller ha parlato di speranza nel film, tacciandola di incompiutezza se non accompagnata dall’assunzione di forti responsabilità. Ma anche in questo caso l’agire secondo libertà è la chiave di lettura finale. Libertà non comunemente intesa, ma libertà morale. Nux, per esempio, è quasi condannato sin dall’inizio, da una sorta di forza provvidenziale, a morire per qualcuno. Non può scegliere tra il farlo e il non farlo, ma può deliberare per chi morire. E lo stesso vale per tutti gli altri personaggi, di cui prevediamo la fine già dall’inizio del film. Rispondiamo insomma ad una legislazione necessaria, ma all’interno di essa possiamo “liberamente” scegliere come adempiere al nostro “obbligato” destino. Dialettica dei contrari, apparentemente. Responsabilità morale, potremmo rinominarla.

Per un attimo torniamo al personaggio di Nux. La struttura a matrioska del film consente l’intersecarsi di migliaia di storie e caratteri. E tra tutti i componenti di questo dipinto munchiano che è Fury Road, spicca quello di questo giovane, incompreso e abbandonato. In primis: sembra l’unico figlio di guerra ad avere una coscienza, mentre gli altri agiscono per puro istinto (non di sopravvivenza, ma di morte). Ma è una sorta di coscienza plasmatasi in itinere, una volta affrancatosi dalle pretenziose aspettative di Immortan Joe. Il percorso di Nux è dunque paragonabile a quello dei protagonisti dei romanzi di formazione, nella quale un novello ‘Ntoni verghiano incappa nei furori giovanili e vi si dimena cercando un indirizzo alla propria esistenza. E ciò non può prescindere dalla ribellione nei confronti di un padre dispotico, depositario delle forze del figlio che ad esso è vincolato. Nux recide dunque il cordone che lo lega a Immortan Joe (le madri non esistono se non come macchine procreatrici), rivoltando il proprio complesso di inferiorità contro il padre. Che comprende di non aver mai amato, ma piuttosto venerato, cercando di non deluderlo mai e di ricevere da lui consensi. E intuisce soprattutto che se si deve morire per qualcosa, vale la pena di farlo per la propria amata. Al diavolo l’approvazione paterna e le promesse di vita eterna! La redenzione definitiva di Nux passa per l’immanente forza del sacrificio amoroso.

E dalla storia dei figli di guerra come Nux si può dedurre qualcosa di estremamente attuale. Miller, tra le righe, vuole mostrarci le trame di potere che si celano sotto ogni forma di atto terroristico che i media riconducono al fenomeno del fanatismo religioso. I kamikaze (chiamati nel film con un termine simile) non sarebbero altro che un esercito di inebetiti (per somministrazione di chissà quale sostanza) di cui l’Occidente si serve per sconvolgere le comunità. Difatti, così come nel mondo reale, anche in Fury Road la stessa figura che arma i figli di guerra, cioè Immortan Joe, detiene ogni forma di risorsa, tra cui l’acqua. Esercizio di finissima onestà intellettuale, da parte di Miller.immortan

E questo film sembra propinarci altre tre certezze. La prima riguarda il dibattito sulla privatizzazione dei beni primari: nel periodo di maggiore destatalizzazione che il mondo abbia mai conosciuto, questo film ci mostra che dobbiamo diffidare di qualunque uomo politico proponga come punto cardine del proprio programma la privatizzazione di un servizio col pretesto di una migliore gestibilità dello stesso. Le risorse che realmente servono all’uomo non si esauriscono mai, sembra tuonare il film. Lampante in tal senso la sequenza in cui si scopre che Immortan Joe ha a disposizione infinite quantità di acqua ricavate dal centro della terra (anche se il discorso iniziale del signore della guerra lascia presagire che realmente l’uomo è capace di farsi schiavizzare da qualunque cosa creda di dominare, persino dall’acqua). La seconda certezza riguarda il binomio ribellione/rivoluzione: quella intrapresa da Furiosa è, inizialmente, solo una reazione femminista e giustiziera al padre, al fine di mettere in salvo le fertili donne. Ma una volta raggiunto il Giardino Verde e accortasi con rammarico che tutto si è ormai inaridito, decide, su consiglio di Max, di tornare indietro, alla Cittadella, e trasformare proprio quel luogo di sottomissione e inferno in un’oasi di pace che avrebbe voluto trovare nella terra natia. Il paradiso non è il Valhalla, né il tanto agognato luogo dei ricordi d’infanzia ormai andato in frantumi, ma ciò che è immediatamente sotto il nostro naso. Un film così apparentemente furioso e nevrotico si rivela di un ottimismo spiazzante e naturalissimo, mostrandoci che la via per la felicità collettiva passa per il rinsavimento della propria terra, e non di certo per una codarda fuga verso fantastici Eden, tali solo perché lontani e sconosciuti. La terza certezza è quella che più ci sta a cuore, viste le nostre ultime recensioni: il film condanna senza alcuna remissione la manipolazione del corpo umano, sia essa meccanica, genetica o tecnologica. Estreme conseguenze macchiettistiche, allucinate ma geniali sono i personaggi di Rictus e Corpus (autocitazione milleriana del personaggio di Master-Blaster di Mad Max – Oltre la sfera del tuono), due figli di guerra che, quasi connessi consanguineamente, rappresentano la mente e il braccio di un essere imbattibile. Una parte è fisicamente menomata ma intelligentissima, l’altra intellettivamente inefficiente ma erculea. Il progresso e la conseguente apocalisse hanno intaccato geneticamente il genere umano, manomettendone le proprietà e obbligandolo alla fusione meccanica e funzionale tra gli organismi. Altro personaggio emblematico è Furiosa, dotata di un braccio artificiale, che tuttavia, nel suo momento di massima debolezza e in preda alle lacrime, rimuove quasi a rappresentare una nudità integrale mascherata fino a quel momento da tenacia e falsa durezza. Per non parlare del corpo ormai totalmente mascherato di Immortan Joe, tra corpetti riproducenti fittiziamente una prestanza fisica ormai perduta nel tempo (critica alla smania autoerotica della cura del corpo?) e accessori che allunghino strenuamente l’esistenza. La vita invece, quella spontaneamente sorta e non oggetto di interferenze, viene spudoratamente e dolorosamente derisa e profanata. Davvero intollerabile la sequenza in cui il dottore informa con noncuranza e leggerezza verbale che sia la donna che il bambino nel suo grembo sono deceduti. Come se si fosse trattato di futili chiacchiere. Fury Road parla dunque della vita calpestata e del trionfo della macchina. Eretta, quest’ultima, a vitello d’oro.

In ultima analisi, diciamo che chiunque, in questo film, vive di ideali. Immortan Joe, il personaggio forse più intimamente combattuto, dedica la sua tribolata esistenza da dio minore alla generazione di una nuova e sana stirpe. Furiosa vuole tornare nella terra che le ha dato i natali. Nux cerca un valido motivo per morire. La povera vecchietta vuole far risorgere la natura, devastata dall’incoscienza umana. Mentre Max, avendo perso qualunque cosa per cui combattere, aiuta il resto dei personaggi a raggiungere i loro nobilissimi obiettivi, senza fermarsi mai, senza più pensare al passato. Ciascuno combatte per la propria causa, senza nette distinzioni tra personaggi positivi e non. Chiamateli dunque idealisti, chiamateli sognatori. Ma non chiamateli pazzi! Rappresentano l’uomo del XXI secolo, il quale, pur vegetando, stentatamente sbraita al mondo intero di essere ancora in pista. Vaneggiando e delirando, apparentemente posseduto da onnipotenza ma aggrappandosi ad ogni attimo in più di vita che riesce ad elemosinare da Dio. Sono semplicemente vivi. E il mondo appartiene a loro.

Gabriele Santoro

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RITENTA, SARAI PIU’ FORTUNATO! (su “Inside out” di Pete Docter)

Ipse dixit: <<Non credo stiano elevando il genere ad una forma d’arte. Penso che Batman resti un tizio che corre in giro con uno stupido mantello>>. Per quanto ci si possa sforzare, per quanto si possano avere i migliori propositi realizzativi, un buon regista deve pur sempre fare i conti con dei sanissimi e salvifici stereotipi cinematografici. E se ad illuminarci a riguardo è il miglior regista vivente, ossia David Cronenberg, l’opinione trova un precedente illustre. Il maestro canadese parlava in quella famosa intervista dei cosiddetti cinecomics, vale a dire film tratti da fumetti, smontando nel caso specifico ogni tesi che inneggi ai Batman di Nolan come fossero dei capolavori indiscussi, impregnati di una (solo presunta) nuova forma di autorialità. <<Son sempre fumetti!>>, chioserebbe dunque il dissacrante David.

E approfittiamo della disputa innescata da questa nobile considerazione per parlare oggi di una “pellicola” che tutto il mondo ha osannato, vale a dire Inside out. Piaciuto ai bambini perché disegnato e fotografato brillantemente, ai grandi perché molto più profondo di quegli odiosissimi e diseducativi pupazzi gialli che hanno invaso il mondo. Piaciuto, aggiungiamo noi, perché semplicemente originale. In un’epoca infatti di miserrimo e mediocre appiattimento monodimensionale in ogni ambito artistico, basta un’idea inusuale per stupire, indipendentemente da come essa venga poi strutturata e realizzata. E le aspettative su questo film d’animazione erano delle migliori: un film che indaghi la mente di una ragazzina in un’età delicata come quella prepuberale non è di certo robetta da poco! Ma come spesso accade, le grandi produzioni si cullano sugli allori di un soggetto da urlo per accontentarsi poi di sceneggiature aporetiche. Ed è il caso proprio di questo film, il quale, se dal canto suo propone un’elevazione a statuto analitico e psicologico della classica animazione, frana in delle voragini che inevitabilmente le alte pretese apportano. E se lo si considera come un’elevazione del genere (come si pretendeva che fossero i Batman di Nolan), allora rispetteremo questa etichetta e applicheremo un’analisi metodologica, strutturale e persino filosofica al film.

In primis. Ciò che più fa raggelare durante la visione anche solo superficiale di tale film è la scioltezza apparentemente disincantata nel presentare le varie funzioni cerebrali e le emozioni base come se fosse una descrizione sacrosanta. È come se il film insomma poggiasse sul trono dell’indiscussa verità suprema, solo perché ricco di riferimenti dedotti dalla scienza ufficiale. Inside out appare come una sorta di documentario scientifico romanzato e cartonato, per questo apprezzabile e intrattenente. Ogni sequenza, seppur stilizzata e limata per apparire gradevole o sorprendente, risulta essere una sorta di indottrinamento accademico e didascalico. Ricordate quella collana di videocassette che più di un decennio fa usciva periodicamente in edicola finalizzata ad illustrare come funzionasse il nostro corpo? Bene, Inside out sembra un’appendice di questa collezione, il cui scopo principale è celato sotto le mentite spoglie della formazione di una bambina che non è più tanto bambina. Il tutto imbellettato da una confettura dolcissima e patinata al punto giusto che solo la Pixar sa garantire.

Ma l’intento didascalico non avrebbe nulla di riprovevole dalla sua, se non la sua componente esclusivamente scientifica. O, potremmo aggiungere, positivistica! Perché le dinamiche interne alla mente della povera ragazzina sembrano non lasciare nulla al caso. Movimenti, azioni, parole e reazioni sono il frutto di combinazioni meramente algoritmiche (peraltro quasi mai chiarissime), come fossimo computer, macchine. Già, i rapporti meccanici sono i prediletti per regolare la combinazione di varie dinamiche organiche e le varie relazioni funzionali. Ciò che Cartesio, secoli fa, è riuscito (ahinoi!) ad inculcare nella già lacera cultura occidentale, è oggetto di (ri)valutazione da parte degli Studios americani. Ciò che si critica del film in questa sede non è dunque solamente la trama in sé o la sovrastruttura dettata dalla sceneggiatura, ma le fondamenta culturali, le impostazioni di base, l’orientamento deontologico del regista. In altre parole, come il filosofo francese nel XVII secolo guardava al corpo umano come ad una poco nobile accozzaglia di componenti tra loro strettamente connesse e regolate da rapporti di causa ed effetto, allo stesso modo Pete Docter esclude ogni possibilità di connessione teleologica (orientata cioè da e ai fini umani, in questo caso intellettivi) tra le parti, le emozioni. Ma una tale radicale presa di posizione è mitigata dalla fattura estetica delle emozioni base: esse difatti sono animate e hanno una coscienza, ma non perché si voglia dare un aspetto più intimo e meno dogmatico al film, quanto più perché è un film d’animazione, e i protagonisti devono necessariamente avere una forma, un nome, un verbo; devono essere personificati. Qualcuno obietterà alle nostre posizioni ribattendo che, in alcune sequenze, la ragazzina si emancipa da quell’involucro robotico di latta che sembra ingabbiarla per tutto il film. Ci riferiamo alle scene in cui Allegra e Tristezza vengono catapultate nella labirintica memoria a lungo termine e lì si perdono. Ma analizzando a fondo, anche in quei casi l’”androide” Riley non fa altro che attivarsi o disattivarsi ai comandi delle restanti emozioni base o proseguire nei suoi piani esclusivamente per inerzia, seguendo le istruzioni precedentemente datele.

In seconda battuta, proseguendo sulla falsa riga di quanto dedotto dalla prima analisi, passiamo ad una critica più strettamente extracinematografica. Senza assumere una visione dietrologica e complottistica, diciamo subito che è in corso una campagna mondiale di condizionamento ideologico che passa per il maggior medium di massa, nonché il più pericoloso, cioè Hollywood. Esso prevede di inculcare, sotto le mentite spoglie di generi apparentemente innocui (come i film d’animazione) o di generi nobilissimi (come la fantascienza), una avanguardistica, progressista ma essenzialmente fascista visione dell’uomo. Essa prescinde da ogni forma di provvidenzialismo fideistico, da ogni approccio religioso per approdare ad una (solo presunta) matura condizione superomistica. E il biglietto da visita per raggiungerla è di certo una sconfinata fiducia nella scienza che tutto vede e tutto può. Ciò insomma che per secoli ha rappresentato di volta in volta un infuocante pretesto per confutare ogni tesi di matrice religiosa, diviene oggi la quintessenza del bigottismo scientista, della ben più cieca presunzione dogmatica odierna. Non ci rendiamo conto insomma di parlare come computer programmati, convinti di possedere la verità tra le mani, ma in realtà influenzati e terribilmente condizionati dall’effusione di uno spirito tutt’altro che santo, mediaticamente indotto. L’anticonformismo razionalista diviene all’improvviso semplice divulgazione di massa, appiattito e uniforme. Merito di film apparentemente ininfluenti a livello ideologico, ma invece subdolamente attivissimi. E quale sarebbe il fine di film come questi? Dirigere le masse verso una concezione del corpo automatica, quasi tecnologizzata. Si inizia con l’influenzare tutti sul piano bioetico: se il corpo appare come una macchina, allora si può rimettere a nuovo e riparare come una macchina, sostituendo semplicemente un pezzo con un altro (sia essa chirurgia organica, sia essa chirurgia plastica), dimenticando che una delle proprietà primarie del nostro organismo è quella della relazione finale tra le parti; per arrivare poi alla considerazione finale, nociva: se il corpo funziona e si ripara come una macchina, allora può essere assimilato ad una macchina. Da qui uno spietato proselitismo a favore dell’intelligenza artificiale e della tecnologia in generale, che ne rappresenta l’anima. Immediatamente e quasi inconsciamente, tutto il mondo assume un punto di vista traviato, concependo questa congruenza tra mondo meccanico e mondo organico come un’inevitabile evoluzione dettata dai tempi. E riaffiora alla mente l’immagine del corrotto e manipolato corpo dei protagonisti di Crash, del già citato Cronenberg. E non rappresenta mica uno spocchioso delirio intellettualistico la nostra citazione! Perché film come Inside out, alla lunga, sono funzionali ad abbassare notevolmente la soglia dello stupore nel mondo di oggi. Così che nemmeno i protagonisti di quell’estremo e meraviglioso film del buon David possano più impressionarci o provocarci disgusto, dato l’ingresso a pieno titolo di quei “caratteri” nella cronaca di ogni giorno e nell’immaginario etico collettivo. Corpi perforati, meccanicizzati, lubrificati come giunture di un motore o rattoppati approssimativamente non destano più sconcerto oggigiorno. Perché, anziché essere scongiurato, tutto ciò è paradossalmente divenuto la nuova frontiera dell’esistenza. Tirata per lunghe, eccessivamente. Stirata oscenamente e spremuta come un limone. In quel mortifero connubio tra tecnologia protetica, fascinazione erotica meccanica e… decesso.

L’unica cosa che ci auspichiamo succeda è che nel sequel si parli un tantino di più della povera bambina, anziché delle sue ignobili e “impersonali” funzioni. Si spera dunque che le delicatissime trame della fase puberale cui Riley è approdata siano trattate più umanamente, senza franarci sopra con onnisciente smania dogmatica, e che lo sviluppo delle vicende non sia affidato solamente a comandi incontrovertibili ma anche a dinamiche non rispondenti a logiche stringenti e non così facilmente delucidabili. Si riparta, per realizzare un buon sequel, dall’unica vera nota positiva del film, vale a dire il personaggio di Tristezza, intesa come l’unica reale fonte di ispirazione, di rilancio, di reazione alla balorda vita. Da essa scaturisce il dolore che ci permette, ancor più dell’incondizionata e per questo odiosissima e intollerabile Gioia, di affrontare con determinazione le difficoltà. Da essa scaturiscono persino cultura, acuta intelligenza, dominio di sé e la migliore delle qualità, l’umiltà. Si riparta persino da Rabbia, identificata saggiamente come un surrogato trasfigurato dell’orgoglio. Si riveda, invece, l’emozione base della Paura, troppo approssimativamente ritratta (che rimanda più all’immagine della Codardia).  Sospendiamo dunque, per il momento, il giudizio sul film e il regista, attendendo notizie sulla seconda parte e augurandoci che, ritentando, Pete Docter possa essere più fortunato. Altrimenti ci arrabbiamo!

Detto ciò, voi direte: <<Ma perché accanirsi così tanto e così pedantemente su questo film? È pur sempre un cartone!>>. Esatto, è qui che vi volevo: son sempre cartoni! Ma solo dal punto di vista strettamente artistico. Perché celano in verità (e più di quanto diano a vedere) messaggi massimalisti. Che nemmeno il buon Cronenberg, questa volta, dovrebbe sottovalutare.

Gabriele Santoro

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CARATTERISTI ANONIMI (omaggio a Philip Seymour Hoffman)

Storie dentro altre storie. Storie dietro altre storie. E questo sembra fare il cinema. Raccontare qualcosa e adombrare realtà altre e stranianti, a volte inaspettate. Scatole cinesi insomma, scrutabili fino ad un certo punto e tanto atroci e sconcertanti da non poter essere sfiorate per paura che qualcosa sia svelato sotto il segno dello scalpore. È il tormento del cinema. Ma ne è pure l’estasi, perché sottacere certi aspetti della vita privata di un attore è l’unico modo per credere realmente che quegli individui che interpretano personaggi vari siano solo sagome sfocate e senza personalità alcuna, che si attivano e animano solo dopo un ciak. E noi ci crediamo, crediamo a questa sindrome “bartoniana” alla Bruce Wayne che affligge uomini comuni tanto esanimi e insignificanti da divenire fenomeni da baraccone solo dopo aver indossato una maschera. Ci crediamo, ma fino a prova contraria. Quando la sacrilega cronaca nera, più o meno menzognera, perfora il tessuto artificioso del mondo altrettanto fallace del cinema e si mostra nuda a noi, qualcosa si rompe. Il cortocircuito determinato dai due livelli, fittizio (narrativo e cinematografico) e reale (di vita vissuta), che si sovrappongono più o meno congruentemente, creano un disorientamento di fondo. E chi, sentendo della morte per overdose di Philip Saymour Hoffman, non ha subito pensato al protagonista di quel bel film di Sidney Lumet, Onora il padre e la madre, e a quello di Truman Capote di Bennett Miller, da lui stesso magistralmente interpretati? Realtà e rappresentazione invadono pericolosamente i reciproci domini. “Oltre il giardino” sembra esserci ancora mondo insomma e oltre il cinema Hoffman sembrava avere un’esistenza sorprendentemente troppo simile a quelle di alcune sue indimenticabili interpretazioni. E adesso che siamo entrati ignobilmente nel suo privato, alcuni suoi film si sostituiscono alla realtà per potercene mostrare una che prima non avremmo mai (o quasi) pensato di accostare alla sua persona, così apparentemente esente da vizi più o meno criticabili. L’eroina e l’alcool nella vita di ogni giorno ma anche in quella professionale, in quei film sopra citati. Un metodo Stanislavskij, potremmo azzardarci a dire, a tal punto profondamente e beffardamente applicato. Ma l’informazione non può denigrare l’operato artistico (perché di questo si tratta) del più grande caratterista del mondo. Sottoscriviamo quanto detto. Perché lo era davvero! C’è chi riscopre il buon Lucio Dalla solo dopo la sua dipartita (la nostra generazione per esempio, ma <<meglio tardi che mai!>>, verrebbe da dire) e chi lo ha sempre amato. E Hoffman lo abbiamo sempre amato! Nato, cresciuto e sepolto dal cinema, come i grandi della storia (da Rino Gaetano nella musica al fenomeno Ronaldo nel calcio) ha abbandonato presto la sua “professione”, già  tuttavia foriera di un’eredità sorprendentemente corposa. Da Scent of a woman, per niente offuscato, seppur ancora acerbo, dal veterano Pacino, al ruolo del segretario servile nella commedia che ha spaccato il secolo, Il grande Lebowski, ai tre film capolavoro firmati Anderson, vale a dire Boogie nights, Magnolia e The Master (tanto negligentemente vituperati dalla critica), alla performance nostalgica de La 25esima ora fino a quelle da protagonista nei sopracitati Onora il padre e la madre e Truman Capote. Tutte interpretazioni da canonizzazione. Altro che banalissimo Oscar…! Immagino l’uomo Hoffman, combattuto e afflitto, fare della statuetta, qualora avesse deciso di portarsene una fino a casa, un appendi – cappello. Spesso si crede erroneamente che sia la fama a corrompere gli animi. Magari è invece questione di abissi esistenziali che nemmeno la fama (questo sì) riesce a colmare. Non si tratta di un’apologia del vizio, ma di ammettere che a volte ci sono dinamiche nel mondo dello star-system (o in generale della cronaca nera, seppur privata, comunque pubblicizzata) che non riusciamo a comprendere e che, soprattutto, non abbiamo il diritto di giudicare. <<È il voler giudicare che ci sconfigge>>, diceva Kurtz in Apocalypse Now, in ogni senso. E se da una parte un regista temerario come Cronenberg porta sulla scena cinematografica le latrine hollywoodiane occultate da fasti barocchi, c’è chi invece di questo mondo posticcio da facciata color panna rimane pubblicamente e realmente vittima. Perché magari ingenuamente o sadomasochisticamente in balia di manie autodistruttive chiamate droga o quant’altro. A tal proposito, dunque, vadano rimosse e catapultate in un sacro oblio le interpretazioni sopra citate così pericolosamente attinenti alla sua vita quotidiana e alla cronaca che lo ha definitivamente relegato all’altro mondo. Altrimenti il giochino rischia di interrompersi e il cinema passerebbe da “fabbrica dei sogni” a “latrina degli incubi”. Si ricordi dunque quella sorta di sciamano metropolitano interpretato in The Master. Rimanga impressa quella magnifica sequenza della costrizione nei confronti di un altrettanto strepitoso Joaquin Phoenix di tenere gli occhi aperti fino alla lacrimazione. Ma si dimentichino Truman Capote e Onora il padre e la madre. Piuttosto, riaffiori alla nostra memoria persino la sua leggera ma divertente interpretazione in Alla fine arriva Polly, nei panni di un attore ormai da tutti dimenticato, aggrappato alle glorie del passato, spaccone ma inconcludente. L’unica certezza che abbiamo è che Hoffman, invece, non verrà mai dimenticato come attore. Si renda omaggio dunque ad un professionista che già tanto aveva dato al cinema. Eterno secondo forse e quasi mai protagonista, ma va bene così. Perché nelle poche interpretazioni come attore principale sembrava annichilire titanicamente l’operato di chiunque gli stesse attorno sul set. Un J. Phoenix, un W. H. Macy, un M. Walberg, un C. Cooper, un J. Bridges gli tenevano testa con fatica, sul filo di un rasoio. È stato tutto ed il contrario di tutto nella sua carriera. Si pensa sia quello del cattivo e spietato il ruolo che rende di più per un buon attore. Ma la grandezza di Hoffman risiedeva nell’aver consegnato ad altre tipologie di personaggi uno statuto cinematografico inaspettato, così da ergere un timido e reietto, un filosofo e master postmoderno, uno scrittore autolesionista, un segretario a parassita a titani più di quanto non sia riuscito a fare con il terribile antagonista in Mission Impossible III. È stato un attore ingombrante, vero, talentuoso, istrionico e giustamente spregiudicato. Un attore mai in sordina. Ogni sua battuta era un tuono, anche se a volte marcata, in Italia, dal troppo schiacciante doppiaggio di Pannofino. Bastava la sua mimica facciale per convincere. Come in Magnolia, con un’espressione da ebete stordito cui vengono concesse rivelazioni mistiche, mentre cerca di rintracciare Tom Cruise al telefono. Espressione non da tutti. Espressione che va immortalata con un primo piano fisso (un plauso al regista!).

C’è poi un secondo livello su cui analizzare le carriere degli attori: le loro collaborazioni. E Hoffman ha creato, tra gli altri, un sodalizio con il regista forse più controcorrente della nuova generazione, vale a dire Paul Thomas Anderson. E l’anticonformismo scenico di quest’ultimo, che scruta i personaggi sino all’esasperazione visiva e all’astenuanza riflessiva, sceglie Hoffman come marchio di fabbrica. O forse è stato lui ad aver scelto Anderson. Perché l’immagine dell’attore inteso come figura media, intellettualmente parlando, inerte e inetta, prima donna e puttana facilmente gestibile dal lenone chiamato regista, è solo una vecchia e anacronistica leggenda, o per lo meno non sempre è veritiera. Perché uno come Hoffman sembra aver dimostrato, nella sua breve, travagliata ma brillante carriera, tanta onesta intellettuale e tanta maturità professionale, quasi mai prostituite all’interesse economico che il mercato cinematografico nove volte su dieci propugna. E Anderson aveva di certo scritturato altri personaggi per lui; da destinare, ahinoi, a terzi. Nella speranza che nasca una nuova generazione di attori che, come lui, decideranno di porre il loro talento a servizio della causa. Senza narcisisticamente prevalere, in ogni film, sugli altri interpreti. Perché si può essere protagonisti comunque. E Hoffman lo era, anche con un cameo di dieci minuti.

 Gabriele Santoro

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