UNA FORMALITA’ PURA (su “The Revenant” di Iñàrritu)

Al rogo Slanislavskij! Il metodo, con le sue radicali degenerazioni formali e performative, ha lasciato strascichi pesanti nel mondo del cinema. Roboante, per carità. Scenicamente impattante. Mediaticamente risonante. Ma funzionale, a volte, come la ricotta sul sugo di pomodoro fresco. Può senz’altro rendere più gradevole il sapore, ma nasconde quello reale. E allo stesso modo questo metodo risulta il più delle volte un tappabuchi, un rimedio temporaneo affinché un’interpretazione risulti più ammiccante ma che non conferisce nessun valore aggiunto al talento recitativo. Che si ha o non si ha. E le cui lacune non possono essere mascherate da una comunque strenua disposizione d’animo al patimento corporale. Il metodo e le sue correlate esasperazioni non aggiungono nulla a quanto già possa dimostrare, di suo, un attore. Anzi, condiziona a volte negativamente l’esito del giudizio della critica quando la fase preliminare alle riprese, in cui l’attore lavora per calarsi totalmente nella parte, viene sbandierata mediaticamente così da farne carne da macello. Pensate che importi a qualcuno che un attore soffra realmente le pene dell’inferno, che si arrechi volontariamente e appositamente alcuni traumi per apparire più credibile? Risulta anzi fin troppo facile interpretare il ruolo di un rinoceronte se lo si è già per natura. È da professionista, invece, sapersi travestire da rinoceronte, in modo verosimile. Anche il mondo attoriale ha dunque subìto una lenta metamorfosi, seguendo una direttrice di semplificazione artistica spacciata per pratica autorale. E la baraonda mediatica causata dal trapelamento, per così dire, di aneddoti riguardanti le riprese di The Revenant, il film di oggi, non hanno sicuramente giovato ad una certa imparzialità di giudizio. Indulgenza pietistica e commiserante o detrazione incondizionata hanno dominato tutte le recensioni relative a quest’ultima fatica di Iñàrritu, dicendo tutto e niente. Cercheremo allora di dire la nostra attraverso considerazioni epurate totalmente da ogni forma pregiudiziale, sia essa concernente la trama, sia essa relativa all’interpretazione di Di Caprio. Per quanto ci riguarda, quest’ultimo avrebbe pure potuto godere di migliori o peggiori condizioni; avrebbe potuto essere sottoposto a restrizioni alimentari o meno; avrebbe potuto recitare negli Studios hollywoodiani o tra i ghiacci. Ma a noi non importa di questi atteggiamenti marchettari ed erotici atti a sovraeccitare lo spettatore o più semplicemente vendere un prodotto. Per quanto ci riguarda, al suo posto avremmo potuto vedere pure l’umilissimo Sandro Ghiani. Impassibili, giudicheremo esclusivamente il film.

Western, dai toni tragici, lirici, documentaristici, sadomasochistici, onirici. Che guarda ad Herzog, a Gibson, a Costner, e che sbircia Cronenberg e Mallick. Ma che risulta, molto semplicemente, iñarritiano. Un’opera ancora una volta personalissima di un regista che, novello Faust, sembra aver contratto un patto col diavolo così da poter acquisire un’abilità registica unica nella storia del cinema. Almeno nel suo genere. Uno stile che sembra cogliere solo il meglio delle possibilità che la nuova era digitalocratica propone. Molto kubrickiano, in tal senso. E questo film non si esime dal presentare una messinscena limata sino a qualche tacca prima del nauseabondo, ricca ma non opulenta. Si rivedono pratiche ormai da tempo bandite nel cinema di oggi, fin troppo colpito dalla barberie di montaggi che il più delle volte rendono qualunque film un frenetico spezzatino: in primis, per esempio, la panoramica, sfruttata non per le riprese dei meravigliosi paesaggi (per quelli vi sono inquadrature fisse) ma per i campi e controcampi, e che ha la stimolante funzione di conferire maggiore tensione alla macchina attoriale e di conseguenza allo spettatore che gode della visione; poi, naturalmente, i lunghi e soliti piani-sequenza. A proposito di questi ultimi, parleremo dell’aspetto che più ci ha colpito di The Revenant, che lo rende, probabilmente, un’opera somma per levatura estetica. In Birdman, capolavoro assoluto dello stesso regista, i piani-sequenza creavano un’abnorme pretesa di realistico, corroborata peraltro dalle tematiche teatrali, oltre che cinematografiche. Il continuo inseguimento da parte della camera nei confronti dei personaggi rendeva tutto terribilmente verosimile, sfiorando più volte il reale. In tal senso, si rischiava di far saltare tutti i meccanismi finzionali e rappresentativi, rinnegando l’essenza stessa di “arte” e sfociando in altri inavvicinabili domini che al cinema non devono pertenere. Ma il grande Iñàrritu comprendeva il rischio e disilludeva subito uno spettatore ormai troppo coinvolto nelle dinamiche ravvicinate e maledettamente realistiche. E lo faceva con un artificio tecnico quale quello del superamento di campo della macchina da presa (l’inquadratura scavalca l’ideale linea di unione tra campo e controcampo) davanti ad uno specchio. Lo spettatore, attendendo invano di vedere l’operatore con la camera allo specchio (ipotesi disattesa da un ”ritocco” digitale), viene finalmente rispedito al cinema, con la consapevolezza di vedere semplicemente un film. Rimarcando peraltro il ruolo del regista, considerato come un semplice rappresentatore, adesso detronizzato e privato di quell’aura di arte che sembrava possedere. Allo stesso modo, in The Revenant, il regista segna un solco profondo tra realtà, finzione e rappresentazione. Sin dall’inizio assistiamo a veri lapsi visivi che ci fanno avvertire la grave presenza del medium (la macchina), vale a dire: aberrazioni cromatiche (Iñàrritu riprende spesso in luce, rivolto verso il sole per esempio, violando le norme della grammatica cinematografica e creando quelle fastidiose rifrazioni che si protraggono per tutta l’inquadratura); macchie sulle lenti della camera, siano esse apportate dalla neve o dal sangue dei protagonisti, ma che permangono a lungo per via degli estenuanti piani-sequenza; per non parlare, poi, degli aloni arrecati dal respiro del protagonista, che in una scena conduce addirittura al totale appannamento. E il regista sembra pure giocarci su, giostrando con abilità colori, vapori, nebbie e fumi. Questa volta, però, il movente di questi lapsi è diverso, addirittura opposto. Non si vuole realizzare un film depositandolo in un limbo che non sia né totale finzione, né indubbia realtà (come in Birdman), ma si vuole, sfruttando una tecnica molto elementare, portare lo spettatore a credere nella rappresentazione ma non nella realtà rappresentata. In parole povere: si sa che è un film, perché si nota continuamente la macchina, e di conseguenza si può arrivare a credere che il protagonista possa salvarsi prima di fronte alla furia di un orso e poi dopo essere caduto da una rupe scoscesa. L’improbabile diventa verosimile perché (solo) la sua rappresentazione lo è.

Il noto, in quanto noto, non è mai conosciuto”, diceva qualcuno. Per questo, analizzando il film dal punto di vista tematico, non ci accodiamo a coloro i quali considerano la trama del film la solita storia, trita e ritrita. Noi siamo del parere che non si debba mai smettere di parlare dell’impatto apocalittico che la colonizzazione europea abbia avuto in America ai danni dei nativi; di cui, nel mondo, non si commemora di certo la strage in un apposito “giorno della memoria”… E ammesso che il numero di film narranti questi episodi arrivi a cento, non abbiamo neppure un film ogni millesimo di indiano massacrato. Ci pare un tantino poco! Dunque, che ben venga The Revenant. Il quale, pur essendo una sorta di rifacimento di Uomo bianco va’ col tuo dio, riserva non poche originali sfumature. Innanzi tutto, è un film che potremmo definire provvidenzialistico. Tutto è inesorabilmente scritto. In uno scontro filosofico tra le categorie di necessario e possibile, la verità è solo una: l’uomo non può pensare di trovare la libertà nel luogo in cui regna sovrana l’incontrovertibile necessità, cioè nella natura. Essa è il luogo delle interminabili odissee, delle lotte per la sopravvivenza e della caccia, sia animale che umana. Anche l’uomo dunque, avvezzo ad abitare la natura, a dominarla, ma non a farne parte, ne rimane ripetutamente vittima. Ed ecco spiegate anche quelle apparentemente snervanti inquadrature di panorami mozzafiato. Non sono un mero sfogo di abilità fotografiche (o almeno non solo) ma fanno da contraltare a immagini invece mortifere e violente dell’amata-odiata natura. E tutto ciò non è che la trasposizione su macchina da presa della teoria del sublime di Kant: in sostanza, gli eventi naturali appaiono affascinanti solo se visti da lontano. Un terremoto, una valanga, un’eruzione vulcanica, un orso gigantesco sono spettacoli meravigliosi…ma solo se inavvicinabili. E la natura, in questo film, appare dunque sublime, non di certo bella. E anche quando risultasse utile e quasi rivitalizzante per l’uomo, sarebbe ripugnante (come in occasione dello sventramento del cavallo usato a mo’ di involucro, per uscirne rigenerato il giorno seguente). Lontano da ogni banale idealizzazione della natura, questo film ci riconsegna, alla maniera di Von Trier in Antichrist, l’immagine di un uomo senza una dimora nel mondo. Sia perché a metà tra due civiltà (la moglie è un’indiana), sia perché alla ricerca di un motivo valido per cui vivere (o per lo meno vegetare). Sia esso la vendetta, sia esso l’amore per la moglie, sia esso Dio. Altro leitmotiv, Quest’ultimo, di tutta la narrazione. Comune a bianchi e Indiani, depositari questi ultimi del Suo spirito vitale, ma Che anche un bianco come il protagonista riesce a pregare. Allora lo scontro non sembra essere tra civiltà o razze. È uno scontro, quello del film, esclusivamente tra timorati di Dio e non. Tra personaggi pii, violenti o meno che siano, e “selvaggi” bestemmiatori. Un ritorno allo scontro, atavico nel western, tra Bene e Male, manicheisticamente definito ma non razzialmente identificato. Una piccola rivoluzione nel genere, riprendendo il tema preleoniano della resistenza degli Indiani; ora popolo dannato, ora popolo prescelto quasi alla maniera ebraica. Ed ecco allora che il finale si macchia di sangue fratricida (ci si chiede ripetutamente chi siano i veri selvaggi nel film), ma dello scontro tra Indiani ed Europei…nemmeno l’ombra! Il vecchio, vecchissimo continente sembra aver cercato e trovato un nuovo luogo dove mettere in scena il solito teatrino dell’orrore, sfociato in violenza dissennata (il sangue versato dagli Indiani risponde invece ad una dinamica ritualistica, quasi sacra). E la ricerca di Dio finisce, a nostro personale avviso, nella meravigliosa scena del sogno del protagonista. Gli appaiono la moglie e il figlio, quest’ultimo al centro di una chiesa ormai in macerie. Sogno che rivela la necessità di ritrovare i cari barbaramente uccisi nel nome di Gesù. Ma la ricerca è vana, perché, molto pessimisticamente, la neonata America sembra aver dimenticato Dio (ammesso che l’abbia mai conosciuto) e mandato in frantumi la Chiesa, sepolta tra il mercato delle pelli e le ignobili pugnalate alle spalle.

Esercizio di stile, quest’opera. Non una pura formalità, ma una formalità pura. Un’estetica di puro cinema che si ripercuote come non mai sulla fruizione, la ricezione, la riproduzione e le tematiche dello stesso film. Con una colonna sonora, affidata a Sakamoto, che risulta a sprazzi volutamente irritante e per questo stimolante, e un finale che è una magra consolazione. A proposito: se da un lato infatti il film apre ad un contatto fraterno tra civiltà che sono molto più vicine, per comune destino, di quanto non diano apparentemente a vedere, dall’altro frastorna all’idea che la vendetta possa appagare il protagonista solo temporaneamente. E che, anzi, possa rimanere totalmente solo questa volta, senza neppure lo spirito della moglie, che sembra tragicamente allontanarsi. E allora ecco il genio assoluto di Iñàrritu, che rompe ancora una volta la quarta parete, definitivamente, facendo interagire il protagonista direttamente col pubblico. Ma il lapsus, questa volta, ha uno scopo di identificazione dello spettatore nel personaggio. La solitudine di quel disgraziato non si riduce di certo. Viene invece condivisa. Siamo tutti soli, siamo tutti senza Dio.

Gabriele Santoro

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