BORN IN THE U.S.A. (su “300″ di Snyder)

Eccessivo relativismo etico-morale. Lassismo bello e buono. Gratuita indulgenza. Ecco il trittico della rovina del mondo della critica cinematografica. Certo, è pur sempre vero che ci sono livelli e livelli di critica. Ma molto spesso si sottovalutano situazioni che andrebbero maggiormente e più criticamente studiate. Sospendiamone il giudizio perlomeno. Perché film che sembrano non essere minimamente “impegnati” non vengono sufficientemente sezionati e analizzati, così da permettere addirittura che serpeggino all’interno di quella giungla che si chiama cultismo. E cult, ahimè, è divenuta pure la defecazione hollywoodiana del secolo, la più “danzante e galleggiante merda” che la cinematografia statunitense abbia prodotto negli ultimi anni, l’apoteosi dell’inimmaginabile vuotezza che il cinema può spesso raggiungere: 300. Saltate pure dalla sedia! Perché questo film è davvero entrato nell’immaginario cinematografico dell’ultima generazione. Inamovibile e gagliardo, sta lì, mai criticabile e forte di un cospicuo successo al botteghino. Allora perché inveirvi contro? Perché dobbiamo cestinare per un attimo ogni forma di relativismo e tornare a definire male ciò che è male e bene ciò che è bene. Almeno cinematograficamente parlando. E cestiniamo pure ogni forma di moralismo, affinché ciascuno possa comunque esser libero di seguire il male, a riguardo. Ma, ripeto, consapevolmente! Essendo preventivamente consci, cioè, che ciò cui assistiamo non è cinema, ma spettacolo circense. Perchè sottovalutare qualcosa di mediocre, in epoca post-moderna, significa elevarla a rango di elegante intrattenimento e nobile disimpegno. Si diffidi dunque da chiunque proponga questo (come molti altri) film come un piacevole action-movie. Il che dovrebbe già far dubitare della sua valenza, essendo esso un film di “guerra”. È vero, è tratto da un fumetto, ma di un episodio bellico pur sempre si tratta e la guerra nel cinema (e non solo) non dovrebbe intrattenere. E tale genere ha un’atavica condanna (o più un rischio) che lo rende difficile da avvicinare: la componente retorica. Ad essa è infatti molto incline aprioristicamente ogni film di marchio statunitense che tratti di guerra. Perché ne è un po’ il distintivo nazionale, il naturale scenario d’azione. Ma da sempre alcuni cauti registi (da Kubrick a Scorsese, da Cimino a Coppola) hanno saputo, seppur Americani (senza offesa!), a consegnare al mondo i più grandi capolavori di tale genere. Perché i panni sporchi si lavano in casa, si sa. E solo chi vi abita ne conosce le magagne. Non è un caso, dunque, che i più grandi autori abbiano parlato d’America da Americani e in stile americanissimo (chi più chi meno), ma in funzione antiamericana. “Sì ma andiamoci piano, sono piani diversi, qui non si vuole paragonare 300 a grandi capolavori”, qualcuno potrebbe ribattere. “Lassismo bello e buono e gratuita indulgenza”, ripetiamo ancora una volta noi. Perché non chiamiamo in causa solo le scelte stilistiche di Zach Snyder, il regista di questo polpettone, ma l’impostazione di fondo del film, prima di tutto. È difatti un film non tanto “americano” quanto fastidiosamente “americanista”. Ma che c’azzecca l’episodio delle Termopili del 480 a.C. con le vicende contemporanee degli Stati Uniti? Naturalmente nulla, se non indirettamente. E come si è più volte sbraitato in questa sede, la propaganda si serve del cancro democratico-mediatico per penetrare indisturbata anche nelle sale cinematografiche. Ma i tempi son cambiati. E risulta essere una propaganda blanda, fuori luogo e anacronistica, seppur presente. Dunque ancor di più oggetto di critiche incondizionate. Ma vediamo perché.

300 soffre di una sindrome a stelle e strisce che potremmo definire del “war-revenge-movie”. Per intenderci: tutto quanto possa rappresentare filmicamente una rivalsa bellica post-Vietnam fa brodo nel calderone chiamato Hollywood. Il tutto rinnovato da una dimensione post-11 settembre. E qual è il miglior modo per inneggiare nazionalsocialisticamente o anche solo patriotticamente ad una certa (vana)gloria statale se non rappresentando un mondo addirittura a.C., antesignano in tutto e per tutto dei valori militari americani e delle millenarie lotte contro l’Oriente? Cercare nel più remoto passato un’autolegittimazione è però un percorso tanto furbastro quanto balordo. “Ma cosa importa”, direbbe qualcuno. E allora ecco servito il mezzo polpettone, apprezzato in tutto il mondo, Italia compresa, Sicilia compresa, Agira compresa. Chi non ricorda la foga di noi ragazzi appena usciti dal cinema, galvanizzati fino all’esasperazione o persino commossi alla sola idea che un’esigua falange potesse frenare l’avanzata di un esercito potenzialmente infinito qual era quello persiano, che da loro sia dipeso il primo tentativo di difesa dell’autonomia proto europea, ecc ecc ecc. Balle! Potremmo replicare. Volendo fare, comunque a buon diritto, i puritani, diremmo che “in guerra non ci sono buono o cattivo, tanto meno vincitori o vinti, ma solo fratelli che si scannano”. Ma più semplicemente diciamo, come ormai è chiaro, che quella battaglia ha rappresentato i prodromi della Guerra del Peloponneso scoppiata cinquant’anni dopo. La si può leggere, infatti, come un episodio di contrasti egemoniali tra Atene e Sparta, di lotte intestine e sgarbi reciproci (alle Termopili difatti non c’erano gli Ateniesi, per “obblighi” religiosi, come a Maratona dieci anni prima non c’erano stati gli Spartani per le stesse ragioni; ripicca?). Da questo punto di vista l’episodio si può piuttosto interpretare come uno dei primi esempi di acuta scissione e rottura tra potenze europee e di come sia pressoché impossibile creare una lega interstatale se non subordinando una di esse a qualche altra. Di come sia impossibile (e ingiusto?), potremmo aggiungere in ultima istanza, creare un’unione interstatale, e basta. E, con un po’ di onestà, non sarebbe male ammettere che, storicamente, i comunque esigui fallimenti dell’esercito spartano erano dettati dal deficit numerico che lo caratterizzava (peggio per loro, quasi quasi!), dal momento che erano ammessi nell’esercito i soli Spartiati. E mettiamo pure che fosse un sacrificio, quello spartano alle Termopili, degno di gloria. Sicuramente, tuttavia, non sarebbe una vittoria di tutto l’Occidente sul barbaro Oriente. Men che meno una vittoria americana, è chiaro! Ma sembra esserlo allorquando ci addentriamo nell’ambito delle esilaranti scelte stilistiche fatte dal regista. Roba da accapponare la pelle.

Premettendo che non credo fosse necessaria una parodia come Treciento per riderci un po’ su ma che 300 è già la riuscitissima parodia di sé stesso, la ridicolizzazione del cinema inteso come medium raggiunge esiti inaspettati. La sublimazione del carnascialesco che si prende tuttavia sul serio (ed è questo il terribile ed inquietante problema), con quei costumi da martedì grasso con annesse tute color pelle che riproducono un fisico aitante e scolpito, non restituisce nulla di fumettistico, ma molto… simpsoniano. Uno spettatore insomma un tantino più “retrò” (o semplicemente non così tanto impantanato in questo nauseabondo cinema esclusivamente computerizzato), alla visione di questo lungometraggio, non saprebbe se ridere o chiamare il caro Snyderone per dargli un consiglio su come trascorrere le giornate qualora scegliesse preventivamente di abbandonare il mondo del cinema. E motivi per ridere ne troviamo a bizzeffe. Partiamo dagli espedienti meramente tecnici. Tra questi ve ne è uno che, non so a voi, creerebbe acute repellenza e insofferenza anche ad un bradipo: il rallenty. Cala il sipario. Ebbene sì, perché si può considerare la più retorica tra le tecniche cinematografiche e usarlo significa rischiare, sempre, di cadere nel pacchiano (il primissimo Sorrentino, per intenderci, lo usava poco o niente). Se ti chiami Anderson, naturalmente, cali deliziosamente l’asso del rallenty in Magnolia, nel fantastico piano sequenza del bar. Ma ti chiami Snyder e lo usi persino quando gli Spartani smussano gli scudi trafitti da frecce, quando infliggono colpi partiti (il colmo!) a velocità naturale, quando subiscono il primo impatto con l’esercito si Serse, quando trascinano epopeicamente un semplice piede nella polvere sottostante o quando un soldato trafigge da lontano un rinoceronte attendendo impassibile che la bestia cada a terra. Ma esperimento che tutti dovremmo fare prima di esalare l’ultimo respiro è tentare di riprodurre 300 interamente a velocità naturale. Il risultato? Un cortometraggio forse. O comunque la sua durata sarebbe di gran lunga ridotta. La morte insomma della componente narrativa di un film. Una mega masturbazione, fatta pure male. Il rallenty, in 300 come in altri film, è un po’ come Montolivo nel Milan, tanta tecnica (solo apparente) ma nessuna efficacia. Ma il paradosso prende forma, tuttavia, solo quando a siffatte scelte si accosta una sceneggiatura che rivela falle imbarazzanti proprio perché in essa si abiura ogni componente retorica che a quanto pare non può essere presente nell’austero mondo Spartiata: “Non c’è spazio per la tenerezza a Sparta”, sentenzia la più stucchevole e quanto mai patetica voce narrante della storia del cinema mondiale. Sì certo, come no, ce ne eravamo accorti. E ci siamo pure accorti, come detto, di quanto la figura dello spartano modello sia plasmata a immagine e somiglianza di quella dell’americano doc. Di quanto il più rappresentativo condottiero nonché re, l’odioso (almeno nel film) Leonida, sia perfettamente assimilabile a qualunque presidente americano dedito alla guerra, democratico o repubblicano. L’autoerotica frase “Solo le donne spartane partoriscono veri uomini” sembra sottendere la possibilità di sostituire la quarta parola con “americane”. E l’orrore prende vita allorquando, vedendo il film in lingua originale, gli Spartani parlano magicamente americano. Snyder e tutti gli sceneggiatori avranno naturalmente pensato (ci mancherebbe!) di non tediare troppo i destinatari del film e spendere tutti i denari e il tempo a disposizione in effetti speciali e computer-grafica, anziché magari spremere un po’ più le meningi e far parlare i protagonisti del film in greco antico (Clint Eastwood docet in Flags of our fathers e Lettere da Iwo Jima con la lingua giapponese), operazione eventualmente apprezzabile. Macché, quell’americanazzo di Leonida sta ritto e tronfio nel cuore della notte, tutto ignudo come un bronzone di Riace, a contare le stelle. Che scena atrocemente straziante! E pateticamente tronfio risulta anche essere il tifo da stadio su note rockeggianti in occasione del naufragio iniziale delle navi nemiche. Fascistite acuta. E lo spettatore non può non parteggiare per tale stile di vita sin dall’inizio. Da quando si illustra la misantropa pratica dell’agoghè (il duro addestramento dall’età di otto anni) a quando gli ambasciatori di Serse si imbattono per la prima (e ultima) volta in Leonida mentre quest’ultimo è intento, guarda caso, a impartire un’inopportuna lezione di sano combattimento al figlio. E il nemico dei Greci diventa nostro nemico. Il nemico degli Americani diventa nostro nemico. Guarda un po’… proveniente dall’Oriente. Vietnam e soprattutto Medioriente (per ovvia ambientazione) sono dunque più che semplici fantasmi.

E nei giorni dell’uscita del sequel-midquel che narra della battaglia di Capo Artemisio, anch’essa del 480, due potrebbero essere gli antidoti all’effetto collaterale: o lo si fruisce con la totale consapevolezza (ma profonda questa volta!) che si tratta di anticinema o non lo si guarda affatto. Premettendo che per ben comprendere come si faccia cinema va sempre vista anche la monnezza, così da rendersi conto, parallelamente, di come il cinema non lo si debba fare, annulliamo subito la seconda alternativa. Ma non restiamo imbrigliati nella morsa della tarantola americana, perché è chiaro il messaggio: l’America avrebbe colto il meglio da ciascuna delle antiche civiltà greche. La sintesi insomma, tra un film e l’altro, del valore delle armi spartano, che si innalza solo per una giusta e onorevole causa contro ogni forma barbara di (in)civiltà, e dei valori social-democratici di Atene e del suo impero (se di tali valori si può sempre parlare, in quanto solo luoghi comuni). E come Reagan qualche decennio fa fraintese (volontariamente?) il messaggio di una nota canzone di Bruce Spriengsteen strumentalizzandola e usandola per la sua campagna elettorale, allo stesso modo noi guardiamo 300 come un film adrenalinico, sul sacrificio umano o sulla forza di volontà che trascende le possibilità umane e bla bla bla. Non è nient’altro che un film stupidamente reazionario, che ci propone falsi miti o idoli storici. Basta dunque col cinema apologetico! O almeno non così sfacciatamente tale.

Gabriele Santoro

Leggi tutto

BISBETICI DOPATI VOL.1, IL CAPITALE UMANO

Bund, bot, btp, cct, mib, bull, cac, il “vintage” bond e la new entry spread. La repubblicana logica del “divide et impera” si sgretola di fronte alla dinamica dell’”ipnotizza et impera”, più mediaticamente efficace, più democratica. Persino le strategie del terrore divengono piani di imbambolamento manipolatorio quando la sempre più astuta democrazia occidentale affina le sue tecniche con lo scopo di plasmare cittadini modello. Il tutto attraverso quella Invasione degli ultracorpi che ci viene somministrata come un doping almeno 3 volte al giorno dai tg: l’informazione economica. Ma facciamo un piccolo conteggio. Moltiplichiamo queste 3 volte (il numero delle edizioni quotidiane dei telegiornali) per il numero delle maggiori emittenti televisive (7) in cui l’informazione opera a livello nazionale. Otteniamo 21. Moltiplichiamo infine quest’ultimo numero per la durata media dell’informazione economica in ogni telegiornale, circa 10 minuti. 210. Tale è la minima dose giornaliera a noi destinata per farci sentire parte di qualche sistema economico. Ben 3 ore e 30 minuti esatti. Porco cane, la durata di Ben Hur! E immagino loro, quelle Moire che tessono i fili del potere mediatico. Me li immagino mentre sghignazzano e ci bombardano con ogni servizio mandato in onda, farcito da una confettura ostentatrice di tecnicismi tanto esilaranti quanto arrangiati. E la tv non conosce il giusto mezzo. Perché alle trasmissioni che cercano con pateticità una certa legittimazione popolare e populista (Quinta colonna, Quarto grado, L’arena), noi tutti preferiamo sbavare, vista la mancanza di alternative, davanti a tuttologhi (economisti) dalle sembianze pantheoniche. Ecco il desiderio di ciascuno di noi: vestire i panni dell’esperto Rampini. Senza sapere, però, che dietro l’alone di ieraticità delle sue parole si nasconde una realtà non solo convenzionale ma anche straniante. Eppure è lo stesso Rampini a Pane Quotidiano, programma di rai 3 dell’ora di pranzo, a svelare, molto onestamente, l’inganno secolare. Lo fa dicendo che non possiamo più farci abbindolare con paroloni che solo gli iniziati sono capaci di comprendere e che tuttavia è possibile sventare questo complotto balordo. E oggetto della conversazione, in quella puntata, era l’ultimo film di Paolo Virzì, in programmazione nel nostro cinema due settimane fa, Il capitale umano. Film che pochi si sono filati. E, udite udite, è proprio un bel film. Non è uno di quei film intellettualoidi e cerebrali in cui si spiccica una parola ogni quarantacinque minuti trattando di minoranze etniche o sessuali. È piuttosto ben dosato, anche se a volte soffre di qualche sbavatura a livello tecnico del mai perfetto Virzì. Ma chi se ne frega! Questo è uno di quei film che partono da un’idea forte di fondo, cui va abbinata una certa messinscena. Un’opera insomma che ha un messaggio da veicolare e che trova nel medium cinematografico un’ottima opportunità per farlo. Ma bisogna dire che il più o meno anonimo, fino a questo film, Virzì prova comunque a sublimare la regia, realizzando un montaggio apparentemente originalissimo (per capitoli tra loro “indipendenti”, seguendo ora uno, ora un altro personaggio) che si rivela, in realtà, un tributo ad uno dei più bei film interpretati da Philip Seymour Hoffman, Onora il padre e la madre di Sidney Lumet. E tra una epifonematica citazione di Pulp fiction (“mi casa es tu casa”) e una colonna sonora che richiama quella di American beauty (film cui si allude esplicitamente anche con le riprese iniziali dall’alto sulla strada che conduce alla casa di Bentivoglio), il regista ci mostra un mondo di arrivisti e savonettes sociali che si prostrano di fronte all’altare binomico dedicato alle divinità “carriera” e “denaro”.

Ma andiamo con ordine. Il film è l’adattamento cinematografico di un romanzo dello statunitense Stephen Amidon. Peculiarità che immediatamente balza ai nostri occhi è la nazionalità dello scrittore e del romanzo. E Virzì ha deciso di andare sul velluto ambientando il suo film nella “affascinante e inquietante” Brianza, per usare parole sue. E quale altra location avrebbe potuto scegliere? La Lombardia è la patria economico-finanziaria del nostro tanto unito Paese. E questo a detta di tutti, soprattutto dalle stesse eminenti personalità che ne fanno le veci, politicamente parlando. Detto questo e premesso che dal film non può non emergere che un quadro vomitevole e orrorifico del mondo descritto (soltanto in superficie), di conseguenza i personaggi colpevoli di certi misfatti e tanto stigmatizzati non possono non parlare il dialetto brianzolo. Non è per intenderci, da parte di Virzì, una netta presa di posizione politica (o almeno non completamente) né tantomeno “terronamente reazionaria”, come gli abitanti del luogo gli rimproverano acremente. C’è senza ombra di dubbio una critica più o meno orchestrata nei confronti di un Nord spregiudicato e fin troppo temerario, ma essa sembra concernere più l’ambito della bigotteria esistenziale che quello dell’infamia finanziaria. Tanto per addentrarci nelle trame narrative del film, insomma, la canaglieria primaria dei protagonisti è quella di pretendere dai figli traguardi che questi potrebbero sì ottenere ma che sicuramente sono questioni di lana caprina rispetto a tutto quanto succede attorno a loro. Gli esempi più evidenti sono il rapporto tra la figlia di Bentivoglio e il figlio di Gifuni, desiderato da tutti tranne che dalla diretta interessata, o il mancato premio scolastico del ragazzo, frustrato da un padre che finge di uscire dal guscio balordo in cui si rinchiude solo quando intima alla moglie di andare a parlare con i responsabili dell’assegnazione durante la cerimonia. E il film mostra come a volte i genitori siano i responsabili, più o meno coattivamente, delle scelte professionali dei figli, ma anche come questi ultimi siano in realtà felicemente succubi di una realtà abietta e mediocre che, dal canto suo, non comporta alcun rischio (e qui sta la maturità del regista di non cadere nel topos comune che vedrebbe molto manicheisticamente da una parte vittime e dall’altra carnefici). La condanna sfuma insomma. Ma sfuma a svantaggio di tutti, persino dei ragazzi (a eccezione di un caso, come vedremo). Tutti incapsulati in un desiderio da “maschi alfa” di primeggiare nella giungla delle pretese dell’epoca post-moderna. Epoca di applausi e ghigni di atroci soddisfazioni. Di cerimonie e gran galà. Di ostentazioni di orgogli vari ed eventuali. Di vanagloria per aver generato creature di razza ariana, di inestimabile valore e di cui occultare le cadute indegne. La mistificatoria idea di esserci liberati di un certo nazionalsocialismo ideologico ha permesso che se ne plasmasse un altro, quello vero e inamovibile. E questa sorta di “capitalismo intellettuale” soffre di matrici diverse, tra le quali una spietata globalizzazione, che porta anche qui in Italia pratiche scolastiche a dir poco pacchiane (da college harrypotteriano) e consuetudini quotidiane prettamente anglosassoni al fine di mostrare come ogni ora delle 24 a nostra disposizione possa essere spremuta come un’arancia e che non ci sia spazio alcuno per il fallimento. È chiaro dunque come questo mondo non sia solamente ritratto dell’universo brianzolo e che ogni tentativo gratuito di denigrare il film nei suoi contenuti sia frutto solamente di un pleonastico trastullo a tinte color verde-leghista, che dei valori di cui sopra ne è il massimo pioniere. Ma questo stucchevole mondo da copertina dimostra di non essere affatto vuoto ma pregno di affari, seppur sporchi, che di fatto decidono l’esito delle dinamiche economiche d’Italia e non solo. Ecco giunti alla seconda divinità, il denaro. E Virzì ci fulmina allorquando, durante un dialogo serrato tra Gifuni e Bentivoglio, alla domanda di quest’ultimo sul perché il fondo azionario comune stesse andando in perdita nonostante le azioni stessero salendo, il primo risponde: “Perché noi avevamo puntato sul loro crollo”. Bang. Una mina esplosa d’improvviso, tra le tante parole pronunciate. Roba da rimanere di stucco per ore intere. Una frase facilmente sottovalutabile ma dall’enorme portata storica (almeno per i comuni mortali come noi, ancora facilmente impressionabili). Speculazioni borsistiche già di inizio secolo scorso fanno spazio a vere e proprie “creste” sulle azioni. Avete presente le schedine che si giocano la domenica? Bene: 1, X, 2. Questo sembra essere il facile meccanismo del mondo della finanza. E la sindrome, fino ad ora applicata al solo mondo del calcio, di scommettere sulla sconfitta della propria squadra del cuore sembra incredibilmente invadere anche il mondo della borsa. E ciò appare ancor più sconcertante quando si pensa, dunque, che singoli individui all’interno di aziende di dimensioni più o meno grandi siano capaci di pianificare il fallimento delle stesse dall’interno, perché coinvolti in fondi di in(s)vestimento azionario come questi. Questi tipi ricordano un po’ il Bisbetico domato Celentano nell’omonimo film, il quale segue alla lettera l’invito della Muti a ridere per le sequenze filmiche di cadute e tonfi. Beh, questi grandi finanzieri, proprio come Celentano nel film, godono delle altrui cadute e dei tonfi, ma reali, e ne sono economicamente avvantaggiati. Totale paradosso insomma. Ancor più fattosi carne anche grazie alla totale assenza dell’apparato statale e di un liberismo di fondo esagerato (mascherato da una mediatica oculatezza governativa). Ed ecco come il film alla fine dei giochi mostri come tutto, ma proprio tutto, sia non solo acquistabile ma anche valutabile pecuniariamente. Le vite umane in relazione a decessi vari ed eventuali (stimabili tanto quanto basta per raccattare la discrezione dei familiari delle vittime, facilmente raggirabili). Il silenzio. L’affetto. Persino la possibilità di un valido compagno di squadra nel tennis. O un semplice bacio. E il film termina da commedia amara. Perché verrebbe quasi da ridere guardando quella faccia da pesce lesso di Bentivoglio. Poi però si pensa alla sua povera figlia. Perché tutti i personaggi del film tendono a tradirci e tradirsi davanti allo spettatore. Ma lei no. Anzi, se da una parte Bentivoglio (da povero disgraziato e vittima quale sembra inizialmente, si rivela un “bastardo di razza” ottenendo l’impossibile) e dall’altra la Bruni (da nostalgica alla ricerca della cultura vera con cui colmare il suo vuoto esistenziale tende col tempo ad essere prima fedifraga all’ennesima potenza e poi ad allinearsi e coprirsi alle direttive del marito) si incupiscono, lei invece ci stupisce in positivo. Parole iniziali da adolescente facilotta lasciano spazio a mature opere e omissioni del tutto redimenti. È l’unica possibilità di salvezza in quella cloaca in cui si punisce solo l’ingenuità dello “sfigato” generazionale, consueto capro espiatorio delle colpe sociali. L’unica che ama proprio quest’ultimo e per poco non riesce a tirarlo fuori dai guai, perché lo merita più degli altri, obiettivamente. L’unica che scongiura ogni asservimento nei confronti di una qualche perfezione sui generis esatta dal genitore. Ma tutti gli altri fanno ribrezzo. Oppressi sì, ma da un mondo da loro creato e, in fondo, compiaciuti dello stesso. Infine ciò che risulta più inquietante in questo film è il trattamento riservato al personaggio di Gifuni, la grande e imperturbabile mente malefica del film. Tra i vari episodi vi sono quelli di Bentivoglio, della ragazza, della Bruni, ma non il suo. Il personaggio risulta essere di conseguenza piatto e tragicamente inamovibile, nonostante sia sempre tonico e di corsa. E l’atteggiamento apparentemente rinunciatario o paraculistico di Virzì mostra invece un’insofferenza di fondo alla sola idea di potersi addentrare in quell’edificio squallido e fatiscente che l’alta finanza rappresenta. Lo sfrenato e lassista capitalismo si è tramutato, da stella scoppiettante, in buco nero. E in quanto tale Virzì non può avvicinarvisi. E chi vi è dentro non può più uscirne fuori, proprio come, nel loro piccolo, anche gli altri personaggi del film (tra tutte la Bruni, invischiata nel sistema più di chiunque altro). Ma ci accontentiamo di quanto visto. È già molto di più della solita terminologia televisiva citata nel nostro incipit. In parte difatti si è realizzato con questo film quanto da Rampini auspicato: fare nostra l’economia e il suo lessico. Smascherare le magagne dell’informazione supercazzolistica e guardare da vicino. Ma non esageriamo! Potremmo rimanere affascinati e trascinati dall’irresistibile gravità di quell’ammiccante buco nero. Nonostante i migliori propositi e le nostre tesi moralistiche da chierichetti, potremmo esserne fagocitati pure noi.

Leggi tutto

LA “FRESCHEZZA” DI NARCISO (sul cinema di Sorrentino)

uomo in più“Quant’ so’ brav’, quant’ so’ bel’”, sembra voler sbraitare sul red carpet dei Golden Globes ai quattro venti, da buon napoletano mattacchione qual è. E il suo imperturbabile aspetto, nonostante sembri che abbia raggiunto la totale atarassia, cela difatti la sua consapevolezza di essere (stato, aggiungiamo) il miglior regista al mondo. O almeno il più virtuoso della camera da presa. Avete presente quei falconieri che, unici al mondo, maneggiano rapaci come fossero peluche? O quelle ostetriche che osserviamo con invidia mentre si destreggiano brillantemente con un neonato tra le braccia? Bene, Paolone Sorrentino è chiaramente un tipo che smanetta la camera come un giocattolino, con i calli del mestiere, conducendo la sua professione, col tempo, diversamente da quanto si possa pensare a primo acchito, più verso una dimensione tecnica e artigianale che artistica (che non sempre coincidono). Ma andiamo con ordine. Non parleremo oggi in modo specifico dell’ultima sua fatica, La Grande Bellezza, bensì del suo cinema in toto, della sua “poetica”, segnata da una netta linea di demarcazione che la suddivide in due fasi ben distinte: una che oserei definire contenutistico – antropologica, un’altra invece prettamente estetico – masturbatoria. Detta così sembra essere stata una scelta selettiva ad aver regolato la nostra categorizzazione dei suoi film. Se non fosse che della prima fase appartiene la sola opera prima, L’uomo in più. Per intenderci, la biografia di Paolo Sorrentino potrebbe pure fermarsi lì. Inizio della carriera artistica e nello stesso tempo suo totale appagamento: 2001. E la sua odissea non è in nessuna orbita spaziale, come l’anno suggerisce, ma in una profonda e, soprattutto, umile indagine sulla coscienza dei protagonisti. Già, coscienza e umiltà sono le mots-clés di questa opera. Coscienza e non psiche. Perché questo Sorrentino ha la capacità di essere riflessivo e problematico all’ennesima potenza, senza avere alcuna pretesa però di incapsulare i personaggi in una fissità precostituita e pregiudiziale (molto più romanzesca che cinematografica, come si nota dalla sua ultima difettata opera, con un’insopportabile voce fuori campo di un paranoico Servillo). Paolone comprende in questa prima fase come il cinema, etimologicamente parlando, sia moto, azione e come gli attori altro non siano che “agenti assoluti”, in quanto sciolti da ogni soffocante vincolo imposto dall’alto dal “narratore”. L’uomo in più dà la parola a tutti noi. E sotto l’etichetta del “soddisfatti o rimborsati” ci permette di vedere nei personaggi ciò che vogliamo liberamente vedere senza alcuna ingerenza. La loro azione, diretta e non mediata, restituisce dunque una loro coscienza etica (comportamentale) più di quanto non lo riesca a fare l’indagine psicologica di una voice-off atta a imboccare emozioni allo spettatore, al fine che non fraintenda nulla (ed ecco la componente umiltà). È la scena a dover parlare, nient’altro. Nessun totalitarismo intellettivo. Evviva il fraintendimento insomma. E Sorrentino sembra aver capito dalla sua opera prima che il cinema, il suo cinema, poteva e doveva essere una macchia di Rorschach. Un’aura surreale e surrealista (alla Bañuel, ravvisabile nei sogni del protagonista, la cui esplicazione è lasciata in sospeso) che non entra affatto in rotta di collisione con una narrazione, come detto, lasciata libera alla sola azione. “Il realismo non esiste”, diceva un vecchio professore. Nel senso che non esiste puro e che non può prescindere da implicazioni altre. E L’uomo in più è il film più umano e, in questo senso, lasciatemelo dire, realista che la cinematografia post-moderna italiana (se non addirittura moderna, azzardando confronti col solo e sommo Monicelli) abbia partorito. Ed è profondamente realista anche e soprattutto perché, al di là della (e armoniosamente in opposizione alla) forma, è un perfetto “ciclo dei vinti” dei nostri giorni, narrando tutte le sfaccettature della sconfitta umana. Un realismo moderno, contornato da una regia che è di un’eleganza eiaculatoria e che non scade mai nello stucchevole né nel pacchiano (si ricordi a proposito il piano sequenza in discoteca, da annali del cinema). Sorrentino non fa avvertire o pesere la presenza del mezzo cinematografico, pur con virtuosismi di alto livello, comprendendo quale sia la discriminante che renderebbe il suo film barocco. Si mantiene paradossalmente più equilibrato di quanto si pensi, anche grazie ad una sceneggiatura sobria, a tratti volutamente sporca, idiomatica, timida e sentenziale, che rispecchia benissimo una realtà provincialotta, arrivista e angusta che opprime i due Pisapia. Ma è anche un film didascalico. Vedendolo si comprende cioè qual è il modello perfetto di cinema in termini di capacità di veicolare messaggi. Nel senso che un buon film come questo lascia l’amaro in bocca. E per meglio metabolizzarlo va rivisto. E rivisto. E così via, senza mai del tutto saziare la nostra esigenza di chissà quale natura. Un cinema insomma attanagliante, alla maniera, per certi versi, cronenberghiana. Tutto qui.

La ricetta perfetta insomma nelle mani di un arguto Sorrentino. Se non fosse che comincia a manifestare, con i successivi film, una verve diversa che risente di una memoria a molto breve termine. Allora Paolone, film dopo film, rincara sempre più la dose e, come uno schizzoide bambino di cinque anni con una pompa in mano e un palloncino da gonfiare, preme sempre più il pistone fino a rischiare lo scoppio e…via con dolly vertiginosi, estenuanti carrellate e panoramiche da capogiro. Tutto un po’ sopra le righe e frenetico, mostrando continui lapsi dovuti al peso eccessivo ed evidentissimo che la camera acquisisce. L’involuzione è però stata graduale. Si è passati dalla regia ancora a tratti bilanciata di un grottesco e comunque gradevole (e apparentemente sottotono) L’amico di famiglia a un Le conseguenze dell’amore (quello sì) sottotono e non apprezzabile se non con un rincaro sostanziale di movimenti di macchina, virtuosi al limite del possibile (creando però una collisione stridente tra sceneggiatura con pretese eccessive, abbastanza limata e forse affettata, e regia altrettanto eccessiva). Poi abbiamo una tregua. E Il divo lo è perché il protagonista risulta essere sopra le righe tanto quanto lo è la messa in scena e, anche se si ha sempre l’impressione di navigare a vista e rimanere perennemente sospesi durante la visione, il film non si prende mai comunque realmente sul serio, almeno ad una lettura primaria. E poi? Poi l’oblio. Premesso che non si possono pretendere da Eracle tredici fatiche, dico pure che undici e mezzo Sorrentino le aveva già portate a temine con solo L’uomo in più. Allora la caduta (che comunque coincide perfettamente col maggior tasso di popolarità raggiunto) è ammorbidita dalla doverosa riconoscenza artistico-culturale che la sua prima fase merita e di cui la troppo verace critica non deve essere dimentica. Ma non si può non ammettere quanto il dolly si sia fatto carne negli ultimi due film. Quanto Paolone si sia autoeroticamente trastullato tra tutte le miriadi di opzioni che quel giocattolino che teneva tra le mani gli offriva. Una spregiudicata sublimazione della tecnica cinematografica che non è ahimè sublimazione artistica. Il deragliamento del mezzo cinematografico verso la sola catarsi estetica; l’unica possibile, per la potenza eccessiva del suo impatto. Allora ecco il tentativo di rendere la sceneggiatura funzionale alla messa in scena (la cosa forse più deleteria) e non invece viceversa. Ecco il tentativo incauto di incastrare a dovere il tema(-prezzemolo) dell’olocausto in This must be the place o di porre troppa carne al fuoco, che brucia già a fine primo tempo (prima che entri in scena insomma il “personaggio chiave di volta”, la Santa), ne La grande bellezza. Con ciò non si intende denigrare questi ultimi due film incondizionatamente, ma in relazione ad uno standard artistico di levatura altissima cui il regista ci ha abituato nella prima fase e con i film che ancora ne risentivano. Il problema sta dunque nell’idea stessa di cinema, diventato da estetizzante ad anestetizzante, da visivamente ricco a tronfio. La superbia precede la caduta, è vero. Ma il buon Paolo non è superbo. Ha semplicemente cominciato, magari narcisisticamente, a percorrere la lunga e comunque meritata discesa dopo aver scalato l’Everest e, di conseguenza, a raccogliere quanto seminato proprio ora che è in atto il deterioramento del suo cinema. Quella frase di cui sopra, sul red carpet, l’avrà pure pensata. E che la pensi anche a Los Angeles, durante quella pantomima che la cerimonia per la consegna degli Oscar rappresenta! Vale per quella volta nel 2001 in cui meritava di pronunciarla ma non poteva perché assente. La dica pure! La sua parte nel cinema, tanto, l’ha già fatta.

Gabriele Santoro

Leggi tutto

SOTTO UNA BUONA STELLA

 

SOTTO UNA BUONA STELLA

 

Cosa succederebbe se un uomo d’affari (Carlo Verdone), divorziato, con una bella casa, una vita agiata, una ragazza mozzafiato, si trovasse improvvisamente costretto a fare il Mammo casalingo con due figli ventenni ed una nipotina a carico? SOTTO UNA BUONA STELLA racconta la storia di un padre (Carlo Verdone, nel ruolo di Federico Picchioni) che si e’separato dalla moglie quando i figli erano ancora piccoli. Nel corso degli anni, grazie ad una brillante carriera in una holding finanziaria, non ha fatto mai mancare nulla alla famiglia ma la sua totale assenza, affettiva e fisica, specialmente verso i figli, e’ stata imperdonabile. L’improvvisa morte della moglie ed uno scandalo finanziario che lo riduce quasi in rovina, cambieranno drasticamente la vita di Federico Picchioni. Non potendo più permettersi di pagare l’affitto ai figli, e’ costretto a farli andare a vivere a casa sua.

Fonte: Comingsoon.it

 

 

 

Leggi tutto

SI SCRIVE DIGITALE, SI LEGGE CAPITALE

PellicolaAnacronismo. Concetto che non si addice minimamente al paffuto Karl Marx e al suo Capitale. Ciò che conferisce modernità e, paradossalmente, persino un alone di post-modernismo al suo pensiero è la sua efficacia in potenza. Vale a dire il fatto che quanto da Marx annunciato non si sia ancora del tutto verificato e che comprendiamo la veridicità della sua analisi sociale solo adesso, sempre più. E l’elemento che più ci sorprende è che la realtà supera di gran lunga la mera teoria del Capitale. La tanto strumentalizzata e chiacchierata alienazione di un individuo dal frutto del suo stesso lavoro si è insinuata in ogni ambito lavorativo, persino in quegli universi tanto lontani (solo apparentemente) da quello dei proletari, protagonisti della trattazione di Marx. Qui si parla insomma di una forma assoluta di capitalismo (a livello concettuale, non solo economico) attecchito indissolubilmente ovunque. Ma ciò che in questa sede si vuol sindacare è la degenerazione che questo sistema ha causato nel luogo che più di ogni altro ci sta a cuore, la nostra sala cinematografica. E come la nostra, una miriade in giro per il mondo. La famosa alienazione di cui sopra ha coinvolto infatti persino le professioni di gestore cinematografico e in maniera specifica, allorquando le due figure siano separate, quella di operatore. Non è che l’ultimo e magari insignificante esempio di smantellamento di vecchie tradizioni e realtà “artigianali”. Ma ad una lettura più approfondita si coglie la maggiore rilevanza di questo discorso e ciò è possibile facendo una doverosa e necessaria premessa. Il cinema, inteso come universo completo ma frammentato, che parte dalla galassia scrittura, per passare da quella della produzione, della realizzazione e che finisce con quelle della distribuzione e della fruizione, presenta come prevalente peculiarità una certa scissione di fondo. E l’avvento del digitale sembra annullare definitivamente anche quel piccolo barlume di unità che il formato analogico della pellicola rappresenta(va): condizione preliminare e necessaria prima della fruizione era difatti il montaggio ultimo in cabina. Da ciò si deduce chiaramente il fondamentale ruolo giocato dall’operatore, il quale, a detta del mio professore di Storia e critica del cinema, De Filippo, “era il reale montatore (in secondo grado) nonché rifinitore della pellicola, con libertà decisionale tale da poter dirigere ulteriori e definitivi tagli”. E così era realmente. Un ruolo attivo, seppur in contumacia, nell’estenuante circuito senza fine delle produzioni cinematografiche. Un ruolo attivo, certo, anche se di brigantaggio. Ma è ciò che ha permesso ai piccolo gestore / Sisifo di trascinare questo enorme masso che si chiama cinema su e giù per quella montagna avversa che si chiama mercato, facendogli credere, a buon diritto, di essere parte integrante del sistema, di contare qualcosa insomma. Che sia chiaro: il mio non è un manifesto di partito. E per questo reputo Marx un antropologo e un sociologo. Non si tratta dunque di parteggiare per un sistema o un altro o issare una bandiera (quanto mai inutile, visto che stiamo da sempre dentro ad un certo sistema economico e ne siamo tutti coinvolti), ma di avere l’onestà intellettuale di non negare l’evidenza e di comprendere che ciò a cui assistiamo è involuzione. Ma è anche onesto ammettere come il suddetto mercato sia stato sì croce, ma anche delizia del sistema cinema, lasciando tuttavia adesso ai gestori cinematografici soltanto ossa da spolpare. Era lo stesso mondo balordo anche allora insomma, ma le cose andavano bene e il pubblico rispondeva. Ed era da aspettarselo dunque. Un passaggio “necessario” quello al digitale  perché le case di produzione e distribuzione erano al verde (peccato che lo fossero pure i cinema!). Le dinamiche imprenditoriali sono sempre finalizzate a ottenere il massimo risultato (pecuniario) con il minimo sforzo (anch’esso pecuniario). C’è poco da sorprendersi, come se non avessimo mai vissuto in un sistema capitalistico! E proprio per questo c’è tanta amarezza, dettata dal fatto che la massima possibilità di profitto (visti i comunque alti costi che la pellicola comporta) ha cancellato da un giorno all’altro l’importanza di un supporto che ne ha fatto la storia per poco più di un secolo. Non si sta parlando insomma di un formato o del sonoro, ma proprio del supporto pellicola. E al di là di ogni tipo di discorso di carattere nostalgico che potremmo pure fare, urge sottolineare il carattere dunque sociale dell’avvento del digitale. Adesso il gestore / operatore è realmente alienato dal frutto della fruizione. A breve non esisterà più la cabina, che è stata fino ad ora la stanza buia dello sviluppo fotografico, il laboratorio di analisi medica, l’officina di un meccanico. E la pressa (strumento per montare manualmente la pellicola) è stata la pialla del falegname, poiché ha avvicinato l’operatore alla figura di un vero artigiano. Il digitale “spersonalizza” il mestiere, cancella la figura dell’operatore e riduce quella del piccolo gestore a semplice macchietta. Un peccato insomma per quei pazzi schizzoidi che iniziano adesso questa attività, perché senza storia recente. Magari ne comincia un’altra, ma non sarà più lo stesso. D’ora in poi il gestore eseguirà ordini dall’alto, come un boia infliggerà il colpo di grazia allo spettatore, che, ignaro di ogni colossale cambiamento avvenuto sopra la sua testa, se ne starà a sgranocchiare pop corn come sempre.

Il mio ringraziamento va naturalmente a chi questo mondo di lontane e sfocate malinconie cinematografiche non lo ha ancora abbandonato o dimenticato. Va a chi in questo mondo ancora ci lavora, tra tradizione, esperienza e professionalità, con la convinzione che un imminente tsunami di inarrestabile progresso sta per travolgerlo, senza sapere come e se ne uscirà e se potrà continuare o meno l’attività svolta da una vita. Un grazie a chi l’arte del montaggio artigianale e in generale il magnifico universo del supporto pellicola li illustra con amore nelle università, consci del fatto che la “fiumara del progresso”, per dirla alla Verga, fa pur parte della storia e non si può arrestare con petizioni o democratici sollevamenti, ma che una scossa del genere può essere ammorbidita da una campagna di informazione, per rendere doveroso omaggio ad una parte di storia. E un ringraziamento speciale a mio padre e mio fratello, che questa realtà l’hanno ben conosciuta e riconsegnata con dedizione al nostro paese, con la speranza che qualcuno si renda conto che anche qui, ad Agira, la storia, anche se a rilento, prosegue come altrove e che una parte del passato cinematografico, forse anche più genuino, è tuttora presente in quella cabina in via Cairoli.

Gabriele Santoro

 

Leggi tutto