BORN IN THE U.S.A. (su “300″ di Snyder)

Eccessivo relativismo etico-morale. Lassismo bello e buono. Gratuita indulgenza. Ecco il trittico della rovina del mondo della critica cinematografica. Certo, è pur sempre vero che ci sono livelli e livelli di critica. Ma molto spesso si sottovalutano situazioni che andrebbero maggiormente e più criticamente studiate. Sospendiamone il giudizio perlomeno. Perché film che sembrano non essere minimamente “impegnati” non vengono sufficientemente sezionati e analizzati, così da permettere addirittura che serpeggino all’interno di quella giungla che si chiama cultismo. E cult, ahimè, è divenuta pure la defecazione hollywoodiana del secolo, la più “danzante e galleggiante merda” che la cinematografia statunitense abbia prodotto negli ultimi anni, l’apoteosi dell’inimmaginabile vuotezza che il cinema può spesso raggiungere: 300. Saltate pure dalla sedia! Perché questo film è davvero entrato nell’immaginario cinematografico dell’ultima generazione. Inamovibile e gagliardo, sta lì, mai criticabile e forte di un cospicuo successo al botteghino. Allora perché inveirvi contro? Perché dobbiamo cestinare per un attimo ogni forma di relativismo e tornare a definire male ciò che è male e bene ciò che è bene. Almeno cinematograficamente parlando. E cestiniamo pure ogni forma di moralismo, affinché ciascuno possa comunque esser libero di seguire il male, a riguardo. Ma, ripeto, consapevolmente! Essendo preventivamente consci, cioè, che ciò cui assistiamo non è cinema, ma spettacolo circense. Perchè sottovalutare qualcosa di mediocre, in epoca post-moderna, significa elevarla a rango di elegante intrattenimento e nobile disimpegno. Si diffidi dunque da chiunque proponga questo (come molti altri) film come un piacevole action-movie. Il che dovrebbe già far dubitare della sua valenza, essendo esso un film di “guerra”. È vero, è tratto da un fumetto, ma di un episodio bellico pur sempre si tratta e la guerra nel cinema (e non solo) non dovrebbe intrattenere. E tale genere ha un’atavica condanna (o più un rischio) che lo rende difficile da avvicinare: la componente retorica. Ad essa è infatti molto incline aprioristicamente ogni film di marchio statunitense che tratti di guerra. Perché ne è un po’ il distintivo nazionale, il naturale scenario d’azione. Ma da sempre alcuni cauti registi (da Kubrick a Scorsese, da Cimino a Coppola) hanno saputo, seppur Americani (senza offesa!), a consegnare al mondo i più grandi capolavori di tale genere. Perché i panni sporchi si lavano in casa, si sa. E solo chi vi abita ne conosce le magagne. Non è un caso, dunque, che i più grandi autori abbiano parlato d’America da Americani e in stile americanissimo (chi più chi meno), ma in funzione antiamericana. “Sì ma andiamoci piano, sono piani diversi, qui non si vuole paragonare 300 a grandi capolavori”, qualcuno potrebbe ribattere. “Lassismo bello e buono e gratuita indulgenza”, ripetiamo ancora una volta noi. Perché non chiamiamo in causa solo le scelte stilistiche di Zach Snyder, il regista di questo polpettone, ma l’impostazione di fondo del film, prima di tutto. È difatti un film non tanto “americano” quanto fastidiosamente “americanista”. Ma che c’azzecca l’episodio delle Termopili del 480 a.C. con le vicende contemporanee degli Stati Uniti? Naturalmente nulla, se non indirettamente. E come si è più volte sbraitato in questa sede, la propaganda si serve del cancro democratico-mediatico per penetrare indisturbata anche nelle sale cinematografiche. Ma i tempi son cambiati. E risulta essere una propaganda blanda, fuori luogo e anacronistica, seppur presente. Dunque ancor di più oggetto di critiche incondizionate. Ma vediamo perché.

300 soffre di una sindrome a stelle e strisce che potremmo definire del “war-revenge-movie”. Per intenderci: tutto quanto possa rappresentare filmicamente una rivalsa bellica post-Vietnam fa brodo nel calderone chiamato Hollywood. Il tutto rinnovato da una dimensione post-11 settembre. E qual è il miglior modo per inneggiare nazionalsocialisticamente o anche solo patriotticamente ad una certa (vana)gloria statale se non rappresentando un mondo addirittura a.C., antesignano in tutto e per tutto dei valori militari americani e delle millenarie lotte contro l’Oriente? Cercare nel più remoto passato un’autolegittimazione è però un percorso tanto furbastro quanto balordo. “Ma cosa importa”, direbbe qualcuno. E allora ecco servito il mezzo polpettone, apprezzato in tutto il mondo, Italia compresa, Sicilia compresa, Agira compresa. Chi non ricorda la foga di noi ragazzi appena usciti dal cinema, galvanizzati fino all’esasperazione o persino commossi alla sola idea che un’esigua falange potesse frenare l’avanzata di un esercito potenzialmente infinito qual era quello persiano, che da loro sia dipeso il primo tentativo di difesa dell’autonomia proto europea, ecc ecc ecc. Balle! Potremmo replicare. Volendo fare, comunque a buon diritto, i puritani, diremmo che “in guerra non ci sono buono o cattivo, tanto meno vincitori o vinti, ma solo fratelli che si scannano”. Ma più semplicemente diciamo, come ormai è chiaro, che quella battaglia ha rappresentato i prodromi della Guerra del Peloponneso scoppiata cinquant’anni dopo. La si può leggere, infatti, come un episodio di contrasti egemoniali tra Atene e Sparta, di lotte intestine e sgarbi reciproci (alle Termopili difatti non c’erano gli Ateniesi, per “obblighi” religiosi, come a Maratona dieci anni prima non c’erano stati gli Spartani per le stesse ragioni; ripicca?). Da questo punto di vista l’episodio si può piuttosto interpretare come uno dei primi esempi di acuta scissione e rottura tra potenze europee e di come sia pressoché impossibile creare una lega interstatale se non subordinando una di esse a qualche altra. Di come sia impossibile (e ingiusto?), potremmo aggiungere in ultima istanza, creare un’unione interstatale, e basta. E, con un po’ di onestà, non sarebbe male ammettere che, storicamente, i comunque esigui fallimenti dell’esercito spartano erano dettati dal deficit numerico che lo caratterizzava (peggio per loro, quasi quasi!), dal momento che erano ammessi nell’esercito i soli Spartiati. E mettiamo pure che fosse un sacrificio, quello spartano alle Termopili, degno di gloria. Sicuramente, tuttavia, non sarebbe una vittoria di tutto l’Occidente sul barbaro Oriente. Men che meno una vittoria americana, è chiaro! Ma sembra esserlo allorquando ci addentriamo nell’ambito delle esilaranti scelte stilistiche fatte dal regista. Roba da accapponare la pelle.

Premettendo che non credo fosse necessaria una parodia come Treciento per riderci un po’ su ma che 300 è già la riuscitissima parodia di sé stesso, la ridicolizzazione del cinema inteso come medium raggiunge esiti inaspettati. La sublimazione del carnascialesco che si prende tuttavia sul serio (ed è questo il terribile ed inquietante problema), con quei costumi da martedì grasso con annesse tute color pelle che riproducono un fisico aitante e scolpito, non restituisce nulla di fumettistico, ma molto… simpsoniano. Uno spettatore insomma un tantino più “retrò” (o semplicemente non così tanto impantanato in questo nauseabondo cinema esclusivamente computerizzato), alla visione di questo lungometraggio, non saprebbe se ridere o chiamare il caro Snyderone per dargli un consiglio su come trascorrere le giornate qualora scegliesse preventivamente di abbandonare il mondo del cinema. E motivi per ridere ne troviamo a bizzeffe. Partiamo dagli espedienti meramente tecnici. Tra questi ve ne è uno che, non so a voi, creerebbe acute repellenza e insofferenza anche ad un bradipo: il rallenty. Cala il sipario. Ebbene sì, perché si può considerare la più retorica tra le tecniche cinematografiche e usarlo significa rischiare, sempre, di cadere nel pacchiano (il primissimo Sorrentino, per intenderci, lo usava poco o niente). Se ti chiami Anderson, naturalmente, cali deliziosamente l’asso del rallenty in Magnolia, nel fantastico piano sequenza del bar. Ma ti chiami Snyder e lo usi persino quando gli Spartani smussano gli scudi trafitti da frecce, quando infliggono colpi partiti (il colmo!) a velocità naturale, quando subiscono il primo impatto con l’esercito si Serse, quando trascinano epopeicamente un semplice piede nella polvere sottostante o quando un soldato trafigge da lontano un rinoceronte attendendo impassibile che la bestia cada a terra. Ma esperimento che tutti dovremmo fare prima di esalare l’ultimo respiro è tentare di riprodurre 300 interamente a velocità naturale. Il risultato? Un cortometraggio forse. O comunque la sua durata sarebbe di gran lunga ridotta. La morte insomma della componente narrativa di un film. Una mega masturbazione, fatta pure male. Il rallenty, in 300 come in altri film, è un po’ come Montolivo nel Milan, tanta tecnica (solo apparente) ma nessuna efficacia. Ma il paradosso prende forma, tuttavia, solo quando a siffatte scelte si accosta una sceneggiatura che rivela falle imbarazzanti proprio perché in essa si abiura ogni componente retorica che a quanto pare non può essere presente nell’austero mondo Spartiata: “Non c’è spazio per la tenerezza a Sparta”, sentenzia la più stucchevole e quanto mai patetica voce narrante della storia del cinema mondiale. Sì certo, come no, ce ne eravamo accorti. E ci siamo pure accorti, come detto, di quanto la figura dello spartano modello sia plasmata a immagine e somiglianza di quella dell’americano doc. Di quanto il più rappresentativo condottiero nonché re, l’odioso (almeno nel film) Leonida, sia perfettamente assimilabile a qualunque presidente americano dedito alla guerra, democratico o repubblicano. L’autoerotica frase “Solo le donne spartane partoriscono veri uomini” sembra sottendere la possibilità di sostituire la quarta parola con “americane”. E l’orrore prende vita allorquando, vedendo il film in lingua originale, gli Spartani parlano magicamente americano. Snyder e tutti gli sceneggiatori avranno naturalmente pensato (ci mancherebbe!) di non tediare troppo i destinatari del film e spendere tutti i denari e il tempo a disposizione in effetti speciali e computer-grafica, anziché magari spremere un po’ più le meningi e far parlare i protagonisti del film in greco antico (Clint Eastwood docet in Flags of our fathers e Lettere da Iwo Jima con la lingua giapponese), operazione eventualmente apprezzabile. Macché, quell’americanazzo di Leonida sta ritto e tronfio nel cuore della notte, tutto ignudo come un bronzone di Riace, a contare le stelle. Che scena atrocemente straziante! E pateticamente tronfio risulta anche essere il tifo da stadio su note rockeggianti in occasione del naufragio iniziale delle navi nemiche. Fascistite acuta. E lo spettatore non può non parteggiare per tale stile di vita sin dall’inizio. Da quando si illustra la misantropa pratica dell’agoghè (il duro addestramento dall’età di otto anni) a quando gli ambasciatori di Serse si imbattono per la prima (e ultima) volta in Leonida mentre quest’ultimo è intento, guarda caso, a impartire un’inopportuna lezione di sano combattimento al figlio. E il nemico dei Greci diventa nostro nemico. Il nemico degli Americani diventa nostro nemico. Guarda un po’… proveniente dall’Oriente. Vietnam e soprattutto Medioriente (per ovvia ambientazione) sono dunque più che semplici fantasmi.

E nei giorni dell’uscita del sequel-midquel che narra della battaglia di Capo Artemisio, anch’essa del 480, due potrebbero essere gli antidoti all’effetto collaterale: o lo si fruisce con la totale consapevolezza (ma profonda questa volta!) che si tratta di anticinema o non lo si guarda affatto. Premettendo che per ben comprendere come si faccia cinema va sempre vista anche la monnezza, così da rendersi conto, parallelamente, di come il cinema non lo si debba fare, annulliamo subito la seconda alternativa. Ma non restiamo imbrigliati nella morsa della tarantola americana, perché è chiaro il messaggio: l’America avrebbe colto il meglio da ciascuna delle antiche civiltà greche. La sintesi insomma, tra un film e l’altro, del valore delle armi spartano, che si innalza solo per una giusta e onorevole causa contro ogni forma barbara di (in)civiltà, e dei valori social-democratici di Atene e del suo impero (se di tali valori si può sempre parlare, in quanto solo luoghi comuni). E come Reagan qualche decennio fa fraintese (volontariamente?) il messaggio di una nota canzone di Bruce Spriengsteen strumentalizzandola e usandola per la sua campagna elettorale, allo stesso modo noi guardiamo 300 come un film adrenalinico, sul sacrificio umano o sulla forza di volontà che trascende le possibilità umane e bla bla bla. Non è nient’altro che un film stupidamente reazionario, che ci propone falsi miti o idoli storici. Basta dunque col cinema apologetico! O almeno non così sfacciatamente tale.

Gabriele Santoro

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