VISIONE MULTIFOCALE (su “Povere creature!” di Yorgos Lanthimos)

Crediamo fermamente che servano due occhi per saper leggere un film. L’occhio destro individua le dinamiche filmiche – narrative, descrittive, dialogiche – e lo stile utilizzato, passando per le tecniche cinematografiche impiegate. L’occhio sinistro carpisce le dinamiche ideologiche del film, sottese al genere selezionato. A quest’ultima categoria appartengono anche tutti i riferimenti filmici che rimandano a quel pattume indifferenziato che reca il nome di ‘propaganda’.

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Perché questa boriosa premessa? Perché ad una prima e superficiale visione di Povere creature! potremmo riscontrare una massiccia presenza di componenti ideologiche (non di certo propagandistiche, sia chiaro!) che sembrano cavalcare l’onda mediatica del momento: il tema della rivalsa e della parità di genere. Giorni fa, a tal proposito, abbiamo condiviso sui nostri social un illuminante articolo de Il Fatto Quotidiano in cui si recensiva quest’ultima fatica del maestro Lanthimos confrontandola con un altro film evento (almeno al botteghino) della corrente stagione cinematografica, anch’esso concernente un tema simile: C’è ancora domani, di Paola boom boom Cortellesi. L’articolo insisteva sulla similarità dei temi ma anche sul diverso sviluppo degli stessi: Povere creature! è un film magnifico e grandioso, l’altro uno sciorinamento didascalico di luoghi comuni, a loro volta repressi da un troppo scolastico contingentamento temporale che ne dovrebbe fare un’opera di carattere storico-politico. Il risultato? Film monco e in alcune sequenze zoppicante, con scelte stilistiche ma soprattutto tematiche inverosimili e senza dubbio rivedibili (la soluzione trovata dalla protagonista per impedire alla figlia di sposarsi – farsi aiutare da un soldato americano che, guarda caso, ha a sua disposizione la solita bomba da far esplodere – è da telenovelas latino-americane di bassa lega). Da ciò desumiamo che l’alta fattura artistica di un’opera è inversamente proporzionale alla visibilità e all’esposizione della componente ideologica. Pensiamo ai grandi autori del passato: essi consegnano alla tradizione capolavori che, pur mirando all’esaltazione del regime sotto il quale vengono realizzati, risultano sospesi in una dimensione temporale non definita; divenendo classici, superando, attraverso una notevole quota artistica, il principio di individuazione che li renderebbe umani, troppo umani. Pensiamo, per esempio, azzardando un confronto illustre, all’Eneide di Virgilio, opera somma fuori dal tempo. L’alta levatura epico-poetica ed il trasporto lirico che la caratterizzano fanno passare in second’ordine le finalità propagandistiche perseguite nemmeno tanto velatamente dall’autore, dalla sua cerchia e dall’imperatore Augusto in persona, posseduto dal demone del più spregiudicato ed esclusivo sciovinismo. Stesso discorso per il buon Michelangelo, che non vorrebbe portare a termine gli affreschi della Cappella Sistina in quanto da sempre artista libero e borderline, per la prima volta alle prese con i capricci della Chiesa che gli ha commissionato l’opera. Anche Lanthimos, che seguiamo da un po’ e di cui abbiamo visto un paio di film, è sempre stato un regista follemente libero (o liberamente folle), che per la prima volta non anticipa alcuni temi ma li declama, nel periodo in cui sono oggetto di maggiore e quotidiana trattazione mediatica. Il tema dunque ridimensiona in senso negativo il nostro giudizio sul film? Ma manco ppe’ gnente! È tuttavia innegabile che la pellicola risulti a tratti ridondante e scenicamente monotona: si pensi alle reiterate scene di sesso esplicito (che hanno comunque un loro senso di esistere, lo vedremo) e ai personaggi maschili, in alcuni casi superficialmente sfaccettati quasi a rimarcare la bidimensionalità del genere maschile, buono solo se accondiscendente. L’unico rischio corso dal regista, dunque, è a nostro avviso proprio questo: aver ulteriormente e involontariamente sobillato un pensiero femmifascista – da qualche tempo pervadente il dibattito pubblico – che vedrebbe nell’alterità di genere non più un contraltare con cui trattare al fine di risolvere un conflitto ma un nemico da combattere e annichilire. Ed il roboante finale ne è inequivocabile manifesto.

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Ma andiamo al film. Dal punto di vista tecnico, è una perla. La fotografia merita un capitolo a sé. Il passaggio dal bianco e nero (nella parte iniziale, coincidente alla prima fase di maturazione della protagonista) a colori vivacissimi (a partire dalla prima fuga di Bella) rappresenta a livello tematico l’epifania, per la ragazza, del mondo esterno. E il veicolo per il passaggio dal piatto al caleidoscopico mondo di Bella è senz’altro la scoperta della sua sessualità. Il cambiamento cromatico dall’iniziale tabula rasa al rinvenimento degli impulsi prima quiescenti è quasi traumatico, determinato dalla portata del casuale disvelamento. Da zero a cento in un solo taglio di pellicola. Da lì, poi, una graduale e ulteriore ascesa pirotecnica, con colori e fotogrammi vagamente espressionistici (i densissimi nuvoloni in un mare di blu poco celeste e molto marino ne sono una straordinaria testimonianza: si pensi all’istante in cui viene ritratto il battello fumante in cui viaggia la nostra Bella, ormai imprigionata in alto mare). Tutto sembra ulteriormente cambiare con l’arrivo di un giallo/rosso desertico nel preciso momento in cui Bella scopre un altro aspetto del mondo: non l’ingiustizia umana, come potrebbe sembrare, ma la crudeltà della Natura, matrigna e per niente consolatrice (da qui lo stato asfittico in cui crolla la nostra, evidenziato proprio dai colori). Da quel momento alla fine i colori si attenuano leggermente: la protagonista, ormai disillusa e smaliziata quanto basta per conoscere il mondo, smussa le sue spigolature per arrivare ad una condizione di totale coscienza di sé. E poi, questione grandangolo. Il foglietto illustrativo di questa tecnica di focalizzazione raccomanda sempre parsimonia, in quanto scenicamente invasiva. Ma Lanthimos se ne strafotte e decide di abusarne, causando una crisi di nervi, dopo soli quindici minuti di visione, a qualunque spettatore sano di mente. Ma il suo genio sta proprio qui: seppur forse in maniera scolastica, crea un parallelismo perfetto, come anche per i succitati colori, tra la funzione tecnica e quella tematica: il grandangolo corrisponde al restringimento di prospettive che una vita da cavia prima e da prigioniera dopo inesorabilmente comportano (infatti sparisce nelle sequenze in cui Bella si dimena nel mondo da sola, in totale autonomia). Passiamo poi alle focalizzazioni registiche: la camera indugia sui personaggi permettendo ciò che nel cinema contemporaneo non esiste più: il tempo morto (esemplare, a tal proposito, la scena in cui il personaggio interpretato da Mark Ruffalo ribolle per l’insofferenza, rimanendo immobile per una decina di secondi a favore di telecamera, poiché tramortito dalle parole ambigue e apparentemente superficiali di Bella dopo averle dichiarato i suoi intenti matrimoniali). Altro unicum tecnico, cifra stilistica di tutta la produzione di Lanthimos, è lo zoom. Ed è una novità assoluta nel cinema contemporaneo, un ritorno al passato che crea un effetto straniante (pochi registi lo usano oggi, sostituito ormai dai carrelli). Altra tecnica ormai in disuso, utilizzata da Lanthimos, è il montaggio in dissolvenza, che insieme allo zoom rende lo stile del nostro regista peculiare (un cinema classico ma al contempo avanguardistico, dotto ma radicalmente pop). E ancora: l’ambientazione da pompa vittoriana, barocca e cromaticamente sovraesposta, è propedeutica a creare un’assuefazione alla stessa per poi decretare una netta cesura nella scena del crollo emotivo di Bella (quando scorge in lontananza degli indigenti che vivono di stenti, episodio già da noi analizzato in riferimento alla fotografia e che rappresenta la chiave di volta del film), momento a partire dal quale i colori diventano più “realistici”. La musica, poi, è da annali del cinema: minimalista ma mai così incidente, con gli archi che riproducono suoni a volte indistinti, di carattere vagamente ancestrale, carichi di una primitività suadente o persino inquietante, e con sonorità ora stridenti e acute, ora cupe e baritonali (a seconda della scena). Un plauso dunque al genio di Jerskin Fendrix.

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La macchina attoriale, poi, è di tutto riguardo. La protagonista, una magnifica Emma Stone (che avevamo apprezzato già ai tempi di Birdman), non sbaglia un colpo: nella prossemica, con quella caratteristica deambulazione goffa e accidentata; nell’espressività del viso; nella graduale acquisizione di consapevolezza intellettiva e culturale di Bella; in un’ascesa metamorfica, ma in realtà semplicemente formativa, che la protagonista sembra perseguire quasi naturalmente, assumendo atteggiamenti sempre più sfumati e sempre meno sopra le righe. I protagonisti maschili, come preannunciato, sembrano a tratti eccessivamente stilizzati, fuorché uno, che emerge su tutti: Godwin, interpretato da un sommo Willem Defoe (cchi ci vo’ diri?). Il regista, già un po’ sanamente folle di suo, sfrutta l’icona che il grande attore rappresenta nell’immaginario collettivo. Il suo volto, dai lineamenti tutt’altro che morbidi, viene sì in questo film “edulcorato”, ma attraverso una maschera mostruosa che snatura la sua espressione tipicamente mefistofelica; ingessandola, pacificandola.

Approfittiamo della questione attoriale per inaugurare la parte da noi dedicata alle tematiche. Si è parlato, all’inizio della recensione, della necessità di una visione multifocale perché un film possa essere interpretato a tutto tondo. Ma attenzione: quell’occhio sinistro di cui sopra, deputato a cogliere i contenuti ideologici, può risultare fuorviante. Perché se dovessimo dare per buono l’assunto per cui il tema principale del film sarebbe la ribalta del genere femminile a scapito di una civiltà patriarcale che va assolutamente spazzata via, commetteremmo un enorme sbaglio: e il film si mostrerebbe come la vecchia imbellettata di pirandelliana memoria, abbigliata con splendidi orpelli ma decrepita sotto le vesti. La banalità del messaggio superficiale viene meno man mano che si scende in profondità. Partiamo proprio dall’ultimo personaggio citato, Godwin. Il suo nome è un chiaro riferimento non tanto ad un’istanza trascendente, quanto al filosofo William Godwin (vissuto a cavallo tra i secoli XVIII e XIX), padre di Mary Shelley, autrice a sua volta del capolavoro Frankenstein. Il mondo concettuale e i temi alla base del film sono proprio quelli del succitato riferimento letterario: la bioetica, il transumanesimo, le frontiere e i limiti del pensiero scientista. E il chirurgo interpretato da Defoe ne è un esempio,  rappresentando sin dall’inizio del film quanto di più scientificamente e tecnicamente spregiudicato vi sia nella ricerca, alimentando la questione e il conflitto relativo a spirito umano e incontrovertibile legge di natura. Già, incontrovertibile, fino a prova contraria. Perché lo stesso Godwin è testimonianza vivente di un indicibile sacrilegio antropologico (oltre che meramente anatomico), essendo dalla nascita una cavia, frutto di esperimenti di chirurgia invasiva da parte del padre che, asportando organi per ricerca, intacca e modifica irreversibilmente persino le funzioni biologiche del figlio (costretto a ricorrere ad un bizzarro strumento che lo aiuta ad avviare la digestione). Ma Godwin, a sua volta, memore delle lezioni apprese ed elaborato il trauma causato dal padre, realizza l’impossibilità di affrancarsi da quel mondo della scienza che aveva da sempre, provvidenzialmente, caratterizzato la sua famiglia. L’uomo della ragione, delle dinamiche causa-effetto, delle incommensurabili possibilità umane, paradossalmente incapace di fuggire al proprio destino divergendo dalla strada del padre. Che comunque ammira, come in un’eterna sindrome di Stoccolma, pur ammettendone nel finale una certa indubbia follia. Di cui egli stesso si fa interprete, destrutturando il corpo e l’anima (già!) di Bella, morta suicida e costretta a rivivere con un nuovo cervello, quello del figlio che teneva in grembo. Figlia di sé stessa (balza agli occhi il ribaltamento del modello cristiano, nella fattispecie mariano, filtrato dalla tradizione dantesca: “Vergine Madre, figlia del tuo figlio…”). Lo sfrenato positivismo (cui anche l’ambientazione rimanda) incarnato da Godwin definisce un nuovo paradigma socio-culturale di impronta cartesiana, in cui il corpo umano vada inteso, senza remore morali o vincoli etico-professionali, in maniera esclusivamente meccanica e strumentale. Non esiste teleologia, nessuna finalità dell’esistenza se non subalterna alle intenzioni dell’uomo moderno. È tutto immanente, e nell’immanenza tutto è consentito, persino trattare il corpo umano come complesso componentistico su cui poter sperimentare a salve. E questo film ci presenta la più evidente contraddizione dei nostri tempi: il pensiero illuminista e vagamente kantiano, che pone l’uomo al centro del villaggio e allontana l’idea di un mondo governato da uno statuto metafisico (che dovrebbe essere soppiantato da uno etico, tutto umano), degenera in un contesto di assenza totale di regolamentazione delle funzioni e competenze umane, adesso pericolosamente e oscenamente stirate all’inverosimile.

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Ma dietro il peggio che il mondo possa riservare agli uomini, dietro le sembianze di un novello dottor Frankenstein che si è fatto mostro in prima persona, immolandosi per la causa di una nuova alleanza pagana e positivista (ancora una volta uno sconvolto riferimento alle sacre scritture, in cui un “dio”, come richiama il nome del protagonista, sacrifica il proprio figlio e gli permette di incarnarsi, creando una guida blasfema per l’umanità), si cela dell’altro.  La sceneggiatura del film, a tal proposito, sembra stupirci continuamente: Godwin, inizialmente degno erede di suo padre, sembra, un po’ come Bella, smussare col tempo le spigolature della sua gargantuesca personalità, passando da un freddo cinismo ad una dimensione compassionevole assumendo ideali di sana paternità che il suo vecchio non aveva mai avuto e con cui adesso lui vuole proteggere Bella dai mali del mondo. Allo sfacelo, quest’ultimo, in cui l’unico bene possibile è rintracciabile nel disumano redento, nella remissione di peccati per l’assenza generale di codici etici e la mancanza individuale di una morale che ad essa possa sopperire.

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Questo ci riconsegna il film: una realtà cruda e terrificante, senza possibilità di salvezza alcuna. In cui la scienza è l’unico dio e Dio non sembra più far parte delle categorie concepite dall’uomo.  E non ci inganni l’occhio sinistro, intento questa volta a seguire la reiterata carnalità della protagonista (prima bramosamente, poi stucchevolmente), le espressioni da babbeo rinunciatario messe in scena dal medico aiutante che si innamora di Bella e l’atteggiamento puerile di un ex latin lover che perde la trebisonda per un amore non completamente corrisposto. Sesso e femminismo, questo solo emergerebbe se badassimo esclusivamente alla trama della parte centrale del film. Da qui l’esigenza di andare oltre e rintracciare nella parte iniziale in bianco e nero, da noi stessi inizialmente definita lenta, la presenza più massiccia di densità tematica (si pensi all’atmosfera quasi mitologica alimentata dalle bizzarre ed esilaranti creazioni in laboratorio di animali sezionati e combinati organicamente – il “canollo” per esempio, metà cane, metà pollo – in contrasto con la successiva policromia caratterizzata invece da una sessuomane monotonia scenica). La protagonista inoltre, dopo una serie di drammatiche vicissitudini, realizza nel finale la propria indipendenza, tanto dalle figure maschili quanto dallo stesso sesso (pare alla fine si adagi su una consolatoria omosessualità). Cosciente della propria condizione di cavia da laboratorio, comprende di non essere una donna come tutte le altre: ha scoperto il piacere sessuale da neonata, per intenderci, ritrovandosi con una coscienza per niente strutturata ma con un corpo già formato (esattamente come un “canollo” qualsiasi). Va da sé che le è stato naturalmente e fisiologicamente concesso di soddisfare la libido, seppur la sua acculturazione precaria non le permetta una valutazione morale sul suo operato (non è una donna intenta ad avere continui e licenziosi rapporti, ma un mostro da laboratorio non consapevole di esserlo). Leggendola così, viene meno anche il nostro di giudizio.

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Ecco allora l’ultimo scatto da compiere! Tornando alla recensione de Il Fatto Quotidiano, pur condividendone quasi interamente il contenuto, parlando con amici che hanno visto il film, siamo arrivati ad una conclusione: il confronto andrebbe fatto non con il film della Cortellesi, ma con ben altri film. Con Crimes of the Future per esempio, l’ultimo capolavoro del maestro e inventore del body horror David Cronenberg, in cui il tema della frontiera scientista assume caratteri unici: asportazioni di organi che diventano elitarie esibizioni dal vivo, generando pulsioni erotiche nello spettatore; un’arte sottomessa completamente a questo pensiero ultrapositivista, in cui si distingue, anche in un contesto delirante, tra commerciale e arte concettuale (ne è esempio il fotogramma sotto riportato); la mutilazione dei corpi intesa come esperienza erogena; la disfunzione organica che non l’uomo, ma la natura stessa e la genetica tramutano in una nuova funzionalità deviata, testimonianza dell’abbandono del mondo da parte di Dio. Insomma, tutto ciò che abbiamo analizzato in Povere Creature! in queste pagine (nonostante il film di Cronenberg sia meno manieristico e la messinscena sia classica). Altro che emancipazione di genere e paternali da salottini di tv generaliste!

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Contrasti chiaroscurali, sia tematici che performativi. Questo è il cinema di Lanthimos. Sequenze in cui il riso si accavalla allo stordimento tragico e viceversa. Ilarotragedie uniche nel loro genere, non assimilabili ad un genere. Se non al suo, che speriamo non si faccia trascinare da quell’onda mainstream che rischia di livellare, appiattire e spazzare via tutto. Arti, idee, verità, sinceri sguardi sul mondo. Piccolo monito: controlleremo il regista d’ora in poi, con entrambi gli occhi sgranati sul suo cinema. A garanzia di libertà.

Gabriele Santoro

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