LORO 1

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 Loro 1 è la prima parte del nuovo film di Paolo Sorrentino con protagonista Toni Servillo nei panni di Silvio Berlusconi.
La seconda parte del film, LORO 2, uscirà nei cinema il 10 maggio 2018.
Il film è un racconto di finzione, in costume, che narra di fatti verosimili o inventati, in Italia, tra il 2006 e il 2010. Attraverso una serie di personaggi, il film vuole tratteggiare un momento storico definitivamente chiuso che, in una visione molto sintetica delle cose, potrebbe definirsi amorale, decadente, ma straordinariamente vitale.
E Loro ambisce altresì a raccontare alcuni italiani, nuovi e antichi al contempo. Anime di un purgatorio immaginario e moderno che stabiliscono, sulla base di spinte eterogenee quali ambizione, ammirazione, innamoramento, interesse, tornaconto personale, di provare a ruotare intorno a una sorta di paradiso in carne e ossa: un uomo di nome Silvio Berlusconi. Quali sono i sentimenti che muovono le giornate di Silvio Berlusconi in quegli anni? Quali le emozioni, le paure, le delusioni di quest’uomo nell’affrontare eventi che sembrano montagne? E’ un altro mistero di cui si occupa il film. Gli uomini di potere di generazioni precedenti a quella di Berlusconi erano altri misteri, perché erano inavvicinabili. Un tempo si parlava, si ricorderà, di disincarnazione del potere. Silvio Berlusconi, invece, è probabilmente il primo uomo di potere a essere un mistero avvicinabile.
È sempre stato un infaticabile narratore di se stesso, valga come esempio sommo il fotoromanzo Una storia italiana che spedì a tutti gli italiani nel 2001, e anche per questa ragione è inevitabilmente diventato un simbolo. E un simbolo, a differenza di un comune essere umano, è una proprietà comune. E dunque, in questo senso, rappresenta anche una parte di tutti gli italiani.

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RISCHIO RETROCESSIONE (su “Youth” di Paolo Sorrentino)

Youth. <<E ‘sti cazzi!>>, verrebbe da sbraitare. Perché seguendo una nota e mordace lezione di Enzo Castellari (autore di film cult poliziotteschi e western anni ’70 e ’80), il successo di un film parte già dalla reazione del pubblico al titolo. Se quest’ultimo viene accolto con un roboante <<Me’ coglioni!>>, allora vorrà dire che sarà gradito tanto da consentire una vasta fruizione del film. In caso contrario, be’… si vada alla reazione di cui sopra. E questa dialettica e romanesca corrispondenza verbale di un più o meno acuto gusto nella scelta del titolo sono lo specchio, alle volte, di un più o meno acuto gusto registico o addirittura filmico. Il buono, il brutto e il cattivo, per esempio, ha di certo un titolo impattante, maschio, ed è anche e sicuramente un capolavoro assoluto. Ma, oggigiorno, questa genuina tendenza al buon cinema italiano di genere, che vede nella scelta del titolo l’apogeo di una tanto conclamata (all’epoca) e salvifica artigianalità del mestierante chiamato regista, si è dissolta nel nome del cinema di serie A (o presunto tale), delle pretese massimaliste (sia registiche che di scrittura), dell’autorialità limata sino all’inverosimiglianza, affettata come un prosciutto crudo. Con cui imbottire smargiasse carriere da Oscar, per lo più. E tornando al film del giorno, vale a dire La giovinezza (così preferiamo chiamarlo, in quanto italofoni), il sintagma <<’Sti cazzi>> rivela una sconfessione totale dei casti dettami del cinema italiano di genere di quegli anni da parte degli autori contemporanei e ne rappresenta, in un certo qual senso, anche la morte.

Fatta questa premessa dai toni nostalgici, tra un giudizio estremo e l’altro (cioè tra il polpettone grossolanamente farcito e il diamante di preziosa fattura, tra <<’Sti cazzi>> e <<Me’ coglioni>> per intenderci), è opportuno per una volta elencare aspetti ora positivi ora negativi del nuovo film di Paolone Sorrentino. E non di certo per atteggiamento ignavo ci porremo in mezzo alla terribile contesa tra incondizionati detrattori e strenui difensori del regista napoletano, ma perché, avendo visto, rivisto, spolpato e rispolpato La giovinezza, vi abbiamo riscontrato sia chicche che rovinose cadute di stile. Partiamo dalla trama.

Due amici ormai anziani sono in vacanza in un centro delle Alpi. Uno è un ex compositore a cui degli emissari della regina Elisabetta chiedono invano di dirigere un concerto in onore del principe Filippo, l’altro è un regista ancora in attività alle prese con il finale della sua ultima fatica. Entrambi e in modo differente, dopo aver fatto conoscenza di decine di particolari personaggi, si rendono conto di quanto siano inadeguati alla società in cui sono costretti ormai a vivere. La giovinezza è il rifacimento più europeizzante, nonostante gli attori siano delle stelle di Hollywood, del patinatissimo La grande bellezza, non tanto per la presenza di una messa in scena più sobria (rimane, difatti, anche qui compiaciutamente magniloquente) ma per la presenza di riferimenti e piccoli particolari che rimandano di certo ad una cultura elevata e non massificata: dalla grande tradizione della musica classica ormai dimenticata e contaminata dalla musica pop di bassa lega al cinema impegnato, passando per lo sport sublimato come arte. Cifre stilistiche di un’Europa che fu, non ancora surrogato di tendenze oltre oceano, ma eccezionale unicum culturale. E Sorrentino tenta nel film di ricreare tale atmosfera rarefatta, di una cultura incontaminata perché segnata dall’età dei due artisti. I quali sembrano tuttavia non aver perso il talento di una vita. Ed è quest’ultimo il cardine di tutta la narrazione. Perché ostinatamente presentato come un dono divino da cui è impossibile discostarsi, di cui è impossibile disfarsi. Ma il conflitto vero e proprio dei due protagonisti emerge allorquando al proprio talento si abbina fatalmente l’impossibilità di adattarlo al presente. I due sono infatti uomini d’altri tempi, autori veri e artisti indiscussi, ma hanno subìto una sorta di atroce condanna da parte del tempo, loro tiranno, vale a dire la progressiva perdita della memoria a lungo termine, una sorta di alzheimer all’inverso (inusuale come trattazione della fase senile in ambito cinematografico) che non permette loro di ricordare il volto dei genitori. Un singolare morbo affligge dunque i nostri protagonisti: non ricordano più la fisionomia di chi li ha messi al mondo, ma ricordano rispettivamente tutte le arie composte, tutti i concerti diretti, tutti i film realizzati e il volto di tutte le muse in essi presenti. Il talento appartiene dunque ad una memoria a sé, fuori dalle logiche comuni, fuori dal tempo, mentre l’esistenza dei due appare molto lunga, anche per mezzo delle scelte registiche volutamente prolisse. <<Dicono che la vita sia breve, ma la vita è troppo lunga!>>, diceva Jimmy Gator in Magnolia. Ed è quello che sembrano pensare ogni attimo anche i due anziani amici in questo film. Quasi a lasciare intendere che ad una certa età sarebbe preferibile perdere completamente il senno o l’esistenza stessa piuttosto che stare ad osservare il mondo che rotola inesorabilmente sempre più verso il baratro e non poter far nulla. Non perché ormai privi di talento (come detto, il talento è la colonna portante di tutto il film, a qualunque fascia d’età si faccia riferimento), ma perché ormai spossati, disillusi, demotivati. Perché vecchi, insomma. Sta qui la drammaticità del film (non si parla infatti di tragicità vera e propria), nella consapevolezza cioè che il mantenimento di un talento puro anche in tarda età crea un’inadeguatezza di fondo alla società in cui si vive, che si vorrebbe invano ancora far esplodere come nei bei tempi ormai andati. Per questo rimane un film sulla giovinezza e non sulla vecchiaia, perché tratta del conflitto quasi irrisolvibile tra giovinezza d’animo, rappresentata dal talento appunto, incorruttibile e sempre presente, e il suo involucro materiale, sottoposto invece, forse salvificamente o forse a mo’ di condanna, alle corruttele del divenire. E non ci inganni il finale: La giovinezza è un film non propriamente ed esclusivamente positivo e speranzoso, ma un film narrante illusioni, disillusioni, vittorie e sconfitte. È ora una preghiera al buon Dio di poter risorgere dalle proprie ceneri, ora un’invettiva allo Stesso, reo di condannare ogni uomo all’appassimento. La giovinezza è tutto e il contrario di tutto, insomma.

A proposito. Nessuna uomo poteva esprimere tale conflitto meglio del terzo protagonista del film, emblema vivente di un verbo divino fattosi carne sotto le mentite spoglie di una semplice dote naturale: Diego Armando Maradona. Il suo ingresso in scena è da annali del cinema, in quanto un piano sequenza lo segue fin sulla lettiga dopo che l’ormai appesantito e malato genio del pallone ha fatto un bagno in piscina. Meravigliosa, tra tutte, la scena in cui il giocatore più superomistico della storia palleggia con una pallina da tennis, d’esterno, sotto il sole e appesantito come una betoniera. Il suo talento non viene minimamente scalfito dalla spiazzante ingiustizia della natura, che la volontà umana, alla maniera di un novello Fitzcarraldo, sembra per un attimo surclassare e abbattere. La stessa volontà che fa pronunciare all’apparentemente finito Diego, ancora una volta e quasi profeticamente, la parola futuro. In nome di un avvenire insperato che, come ben sappiamo, egli tornò davvero ad avere nelle vesti di allenatore della sua Argentina dopo ben cinque ricoveri (per ipertensione cardiaca, per overdose, per epatite e infine per disfunzione renale). Riscontriamo dunque due diverse reazioni alla vita nel film: da una parte, la decisione del vecchio regista di gettarsi dal balcone dopo aver constatato quanto brutto sia diventato quel mondo che credeva di conoscere e saper raccontare bene (alla maniera del protagonista di Birdman, per certi versi); dall’altra la testimonianza, seppur romanzata ma comunque reale, di un semidio dalle sembianze esclusivamente umane e per questo parecchio sofferente, ma pronto a ricominciare strenuamente, tentando il volo un po’ come uno strafottente calabrone in apparenza impossibilitato a farlo. Un po’ come un semidio, di fatto morto, resuscitato, rimorto, e di nuovo resuscitato, e avanti così per almeno cinque o sei volte e con una disinvoltura unica. Ma Maradona è anche altro. Rappresenta una netta presa di posizione in ambito artistico e culturale, in quanto oggetto speciale di un culto che è forse divenuto tendenza, ma anche personaggio emblema di un’ostilità profonda verso ogni tipo di cultura massificata di matrice americanistoide (la presentazione di Maradona avviene di spalle, mostrando il faccione di Marx tatuato sulla schiena; motivo per cui non arriverà alcun Oscar per Sorrentino). Torniamo dunque al messaggio iniziale, secondo cui tutto ciò che è sana cultura elitaria (nell’accezione di aristocratica) non dovrebbe avere nulla a che spartire con il cattivissimo gusto trash (ancor più che pop) di orripilanti video sbandierati su emittenti musicali, di effetti speciali terribilmente sovraesposti, della imperante monnezza seriale della tv preferita al vero cinema d’autore o semplicemente al cinema. Il tutto a scongiurare un concetto di bellezza inteso esclusivamente come pomposa e pompata ricchezza visiva, proponendolo invece come completezza etico-estetica (ne è l’incarnazione Miss Universo, capace, viva Dio, anche di parlare).

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Ma allora cosa non funziona in una pellicola di cui, fino a questo momento, abbiamo tessuto esclusivamente lodi? La risposta è secca: la sceneggiatura! E se si acquisisse per un attimo il punto di vista di chi considera a buon diritto la sceneggiatura come il sinolo, come “il tutto filmico”, sia materia che forma estetica, allora questo film risulterebbe manchevole in toto. Se una messa in scena del genere fosse difatti corroborata da una sceneggiatura più pacata, più verosimile e senz’altro meno sentenziale, meno lavorata, in questo caso risulterebbe molto probabilmente un film delizioso, una vera opera d’arte. Ma se ai fasti di una pinacoteca trasposta su pellicola aggiungiamo dialoghi forzati ed epifonematici, la frittata sembra servita. E guardare La giovinezza è come assistere ad uno spettacolo circense nel quale ogni secondo esplosioni pirotecniche e salti mortali improponibili allietano (ma nello stesso tempo, alla lunga, affaticano) i nostri occhi. Il tutto appesantito da frasi che metteremmo benissimo in bocca a sciamani o santoni, quando, invece, sarebbe preferibile il silenzio (ed è lo stesso anziano regista interpretato da Keitel a trovare nel silenzio il giusto finale del suo film). E cerchiamo dunque di dare una nostra personale interpretazione di questa smania totalitaria che Paolone mette in mostra ogni qual volta impugni una camera da presa. Innanzi tutto soggetto e sceneggiatura degli ultimi due film sembrano entrambi tratti da 8½ di Fellini (ancor più che da La dolce vita). E i riferimenti sono parecchi: dagli artisti a cui manca l’ispirazione per ricominciare un percorso artistico agli ingressi in scena di personaggi bislacchi in pure stile carnescialesco e circense all’elemento onirico (presente in realtà, ma in maniera surrealistica e dunque enigmatica, già da L’uomo in più). Per non parlare poi dello stile registico manierato e manipolatissimo, in cui Sorrentino somiglia al più ebbro Scorsese: carrelli accelerati da parco avventure, dolly vertiginosi e a volte anche nauseabondi. Il tutto con un montaggio apparentemente originalissimo, in quanto tendente ad accavallare in modo alternato scene diverse prima che cambi definitivamente la sequenza, ma che in realtà richiama perfettamente lo stile di  Donn Cambern in Easy Rider. Davvero originale, invece, la scelte kubrickiane e visivamente provocatorie di girare le scene dialogiche, anziché con un usuale campo-controcampo, con deliziosi piani d’ascolto (il che rende questo film, sotto certi aspetti, impopolare) e di allungare spesso il campo di ripresa, facendo credere allo spettatore che la scena stia per cambiare, per poi ridurlo nuovamente con netti primi piani. Tanta comunque, ma proprio tanta erudizione cinematografica riscontriamo in quest’ultimissimo Sorrentino. Ma possiamo ancora chiamarlo Sorrentino? È ancora sé stesso o si compiace forse eccessivamente e senza riscontro cinematografico reale di compiere rifacimenti post-moderni di film ormai passati? Il cinema di oggi ha più bisogno di “pseudoremake” o di autori d’eccezione, che sappiano, pur ancorati nella tradizione del passato, dare un’impronta nuova alla nostra realtà culturale? Non più di cinefili e sfrenati omaggi al cinema ha bisogno la cultura occidentale, ma di chi annienti l’oggi senza nemmeno menzionare ciò che è stato ieri, bene o male che sia (l’emblema, a tal riguardo, è l’ultima pellicola di Cronenberg, di cui abbiamo già parlato in questa rubrica, vale a dire Maps to the stars). Certo, la critica allo star system è abbastanza verace anche ne La giovinezza, ed è forse anche la chiave di volta dell’intera narrazione, per via della decisione finale del vecchio regista in seguito al rifiuto della sua musa di girare con lui. Ma tutto rimane in un involucro ermetico e vincolante che si chiama “richiamo ai modelli”. È come se il cinema di Paolo Sorrentino, insomma, vivesse di eterne contraddizioni performative, e questa è la ragione per la quale il pubblico ostenta reazioni radicali e contrarie: <<o lo si ama o lo si odia>>, dice qualcuno. E se questa recensione può apparire macchiata di vaghezza di giudizio, è solo perché abbiamo cercato di essere obiettivi quanto mai nel prendere una posizione a riguardo. E il nucleo del nostro giudizio sul Paolone nazionale è questo: il suo cinema è (diventato?) una pericolosa combinazione di cinema d’eccezione e cinema falso-autoriale. Facendo riferimento all’ambito calcistico, tanto per rimanere in tema, il suo cinema considerato di serie A sembra franare e retrocedere molto spesso in serie cadette. Uno stile insomma campato in aria, apparentemente barcollante, vago.

Ma La giovinezza è portatrice sana di una speranza, e cioè che, vista la parziale evoluzione rispetto al precedente La grande bellezza, il cinema di Sorrentino possa tornare pian piano a vestire i panni degli esordi, quelli del capolavoro assoluto L’uomo in più, per intenderci, mirabile esempio di equilibrio tra regia e sceneggiatura al cui livello nessun altro regista è mai arrivato. Che possa dunque tornare, il buon Paolone, a guardare la realtà come i protagonisti del suo ultimo film, con quel cannocchiale girato (non in segno di vecchiaia, ma di umiltà di pretese) così da non permettergli di volgere lo sguardo altrove, troppo lontano. Che possa puntare sempre meno, con l’età che avanza, a Hollywood e possa tornare a raccontare l’Italia, la sua Napoli, il nostro dramma meridionale. Riducendo la portata magari, ma si tratterebbe di una sua, di una nostra portata. Per tornare a farci sbraitare, dalle nostre salette, l’unica cosa che vale la pena urlare: <<Me’ coglioni!>>. Titolo a parte, naturalmente.

Gabriele Santoro

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YOUTH – LA GIOVINEZZA

GIOVINEZZA

Youth La giovinezza, il nuovo film di Paolo Sorrentino, si svolge in un elegante albergo ai piedi delle Alpi dove Fred e Mick, due vecchi amici alla soglia degli ottant’anni, trascorrono insieme una vacanza primaverile. Fred è un compositore e direttore d’orchestra in pensione, Mick un regista ancora in attività. Sanno che il loro futuro si va velocemente esaurendo e decidono di affrontarlo insieme. Guardano con curiosità e tenerezza alla vita confusa dei propri figli, all’entusiasmo dei giovani collaboratori di Mick, agli altri ospiti dell’albergo, a quanti sembrano poter disporre di un tempo che a loro non è dato. E mentre Mick si affanna nel tentativo di concludere la sceneggiatura di quello che pensa sarà il suo ultimo e più significativo film, Fred, che da tempo ha rinunciato alla musica, non intende assolutamente tornare sui propri passi. Ma c’è chi vuole a tutti i costi vederlo dirigere ancora una volta e ascoltare le sue composizioni.

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LA “FRESCHEZZA” DI NARCISO (sul cinema di Sorrentino)

uomo in più“Quant’ so’ brav’, quant’ so’ bel’”, sembra voler sbraitare sul red carpet dei Golden Globes ai quattro venti, da buon napoletano mattacchione qual è. E il suo imperturbabile aspetto, nonostante sembri che abbia raggiunto la totale atarassia, cela difatti la sua consapevolezza di essere (stato, aggiungiamo) il miglior regista al mondo. O almeno il più virtuoso della camera da presa. Avete presente quei falconieri che, unici al mondo, maneggiano rapaci come fossero peluche? O quelle ostetriche che osserviamo con invidia mentre si destreggiano brillantemente con un neonato tra le braccia? Bene, Paolone Sorrentino è chiaramente un tipo che smanetta la camera come un giocattolino, con i calli del mestiere, conducendo la sua professione, col tempo, diversamente da quanto si possa pensare a primo acchito, più verso una dimensione tecnica e artigianale che artistica (che non sempre coincidono). Ma andiamo con ordine. Non parleremo oggi in modo specifico dell’ultima sua fatica, La Grande Bellezza, bensì del suo cinema in toto, della sua “poetica”, segnata da una netta linea di demarcazione che la suddivide in due fasi ben distinte: una che oserei definire contenutistico – antropologica, un’altra invece prettamente estetico – masturbatoria. Detta così sembra essere stata una scelta selettiva ad aver regolato la nostra categorizzazione dei suoi film. Se non fosse che della prima fase appartiene la sola opera prima, L’uomo in più. Per intenderci, la biografia di Paolo Sorrentino potrebbe pure fermarsi lì. Inizio della carriera artistica e nello stesso tempo suo totale appagamento: 2001. E la sua odissea non è in nessuna orbita spaziale, come l’anno suggerisce, ma in una profonda e, soprattutto, umile indagine sulla coscienza dei protagonisti. Già, coscienza e umiltà sono le mots-clés di questa opera. Coscienza e non psiche. Perché questo Sorrentino ha la capacità di essere riflessivo e problematico all’ennesima potenza, senza avere alcuna pretesa però di incapsulare i personaggi in una fissità precostituita e pregiudiziale (molto più romanzesca che cinematografica, come si nota dalla sua ultima difettata opera, con un’insopportabile voce fuori campo di un paranoico Servillo). Paolone comprende in questa prima fase come il cinema, etimologicamente parlando, sia moto, azione e come gli attori altro non siano che “agenti assoluti”, in quanto sciolti da ogni soffocante vincolo imposto dall’alto dal “narratore”. L’uomo in più dà la parola a tutti noi. E sotto l’etichetta del “soddisfatti o rimborsati” ci permette di vedere nei personaggi ciò che vogliamo liberamente vedere senza alcuna ingerenza. La loro azione, diretta e non mediata, restituisce dunque una loro coscienza etica (comportamentale) più di quanto non lo riesca a fare l’indagine psicologica di una voice-off atta a imboccare emozioni allo spettatore, al fine che non fraintenda nulla (ed ecco la componente umiltà). È la scena a dover parlare, nient’altro. Nessun totalitarismo intellettivo. Evviva il fraintendimento insomma. E Sorrentino sembra aver capito dalla sua opera prima che il cinema, il suo cinema, poteva e doveva essere una macchia di Rorschach. Un’aura surreale e surrealista (alla Bañuel, ravvisabile nei sogni del protagonista, la cui esplicazione è lasciata in sospeso) che non entra affatto in rotta di collisione con una narrazione, come detto, lasciata libera alla sola azione. “Il realismo non esiste”, diceva un vecchio professore. Nel senso che non esiste puro e che non può prescindere da implicazioni altre. E L’uomo in più è il film più umano e, in questo senso, lasciatemelo dire, realista che la cinematografia post-moderna italiana (se non addirittura moderna, azzardando confronti col solo e sommo Monicelli) abbia partorito. Ed è profondamente realista anche e soprattutto perché, al di là della (e armoniosamente in opposizione alla) forma, è un perfetto “ciclo dei vinti” dei nostri giorni, narrando tutte le sfaccettature della sconfitta umana. Un realismo moderno, contornato da una regia che è di un’eleganza eiaculatoria e che non scade mai nello stucchevole né nel pacchiano (si ricordi a proposito il piano sequenza in discoteca, da annali del cinema). Sorrentino non fa avvertire o pesere la presenza del mezzo cinematografico, pur con virtuosismi di alto livello, comprendendo quale sia la discriminante che renderebbe il suo film barocco. Si mantiene paradossalmente più equilibrato di quanto si pensi, anche grazie ad una sceneggiatura sobria, a tratti volutamente sporca, idiomatica, timida e sentenziale, che rispecchia benissimo una realtà provincialotta, arrivista e angusta che opprime i due Pisapia. Ma è anche un film didascalico. Vedendolo si comprende cioè qual è il modello perfetto di cinema in termini di capacità di veicolare messaggi. Nel senso che un buon film come questo lascia l’amaro in bocca. E per meglio metabolizzarlo va rivisto. E rivisto. E così via, senza mai del tutto saziare la nostra esigenza di chissà quale natura. Un cinema insomma attanagliante, alla maniera, per certi versi, cronenberghiana. Tutto qui.

La ricetta perfetta insomma nelle mani di un arguto Sorrentino. Se non fosse che comincia a manifestare, con i successivi film, una verve diversa che risente di una memoria a molto breve termine. Allora Paolone, film dopo film, rincara sempre più la dose e, come uno schizzoide bambino di cinque anni con una pompa in mano e un palloncino da gonfiare, preme sempre più il pistone fino a rischiare lo scoppio e…via con dolly vertiginosi, estenuanti carrellate e panoramiche da capogiro. Tutto un po’ sopra le righe e frenetico, mostrando continui lapsi dovuti al peso eccessivo ed evidentissimo che la camera acquisisce. L’involuzione è però stata graduale. Si è passati dalla regia ancora a tratti bilanciata di un grottesco e comunque gradevole (e apparentemente sottotono) L’amico di famiglia a un Le conseguenze dell’amore (quello sì) sottotono e non apprezzabile se non con un rincaro sostanziale di movimenti di macchina, virtuosi al limite del possibile (creando però una collisione stridente tra sceneggiatura con pretese eccessive, abbastanza limata e forse affettata, e regia altrettanto eccessiva). Poi abbiamo una tregua. E Il divo lo è perché il protagonista risulta essere sopra le righe tanto quanto lo è la messa in scena e, anche se si ha sempre l’impressione di navigare a vista e rimanere perennemente sospesi durante la visione, il film non si prende mai comunque realmente sul serio, almeno ad una lettura primaria. E poi? Poi l’oblio. Premesso che non si possono pretendere da Eracle tredici fatiche, dico pure che undici e mezzo Sorrentino le aveva già portate a temine con solo L’uomo in più. Allora la caduta (che comunque coincide perfettamente col maggior tasso di popolarità raggiunto) è ammorbidita dalla doverosa riconoscenza artistico-culturale che la sua prima fase merita e di cui la troppo verace critica non deve essere dimentica. Ma non si può non ammettere quanto il dolly si sia fatto carne negli ultimi due film. Quanto Paolone si sia autoeroticamente trastullato tra tutte le miriadi di opzioni che quel giocattolino che teneva tra le mani gli offriva. Una spregiudicata sublimazione della tecnica cinematografica che non è ahimè sublimazione artistica. Il deragliamento del mezzo cinematografico verso la sola catarsi estetica; l’unica possibile, per la potenza eccessiva del suo impatto. Allora ecco il tentativo di rendere la sceneggiatura funzionale alla messa in scena (la cosa forse più deleteria) e non invece viceversa. Ecco il tentativo incauto di incastrare a dovere il tema(-prezzemolo) dell’olocausto in This must be the place o di porre troppa carne al fuoco, che brucia già a fine primo tempo (prima che entri in scena insomma il “personaggio chiave di volta”, la Santa), ne La grande bellezza. Con ciò non si intende denigrare questi ultimi due film incondizionatamente, ma in relazione ad uno standard artistico di levatura altissima cui il regista ci ha abituato nella prima fase e con i film che ancora ne risentivano. Il problema sta dunque nell’idea stessa di cinema, diventato da estetizzante ad anestetizzante, da visivamente ricco a tronfio. La superbia precede la caduta, è vero. Ma il buon Paolo non è superbo. Ha semplicemente cominciato, magari narcisisticamente, a percorrere la lunga e comunque meritata discesa dopo aver scalato l’Everest e, di conseguenza, a raccogliere quanto seminato proprio ora che è in atto il deterioramento del suo cinema. Quella frase di cui sopra, sul red carpet, l’avrà pure pensata. E che la pensi anche a Los Angeles, durante quella pantomima che la cerimonia per la consegna degli Oscar rappresenta! Vale per quella volta nel 2001 in cui meritava di pronunciarla ma non poteva perché assente. La dica pure! La sua parte nel cinema, tanto, l’ha già fatta.

Gabriele Santoro

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