LA VERITA’ TI FA MALE! (su “Maps to the stars” di Cronenberg)

Agghiacciante. Credo che l’aggettivo che più a questo film si addice sia proprio questo. Raggelante in un finale che sembra principio di nulla, apocalisse di tutto. Niente spazio per misericordiosi giudizi divini ed eventualità di approdi in regni lontani e salvifici. Dio, stando alle suggestioni finali del film, sembra aver invertito la rotta, aggiustando e revisionando coscienziosamente i suoi piani. L’uomo ha perso la sua bussola, sembra navigare a vista alle volte di un illusorio ed effimero successo professionale. Dunque punibile; come non crede più di essere, per intenderci, dai tempi dell’Antico Testamento. Perché Maps to the stars di David Cronenberg, il film di cui stiamo parlando, rimanda sicuramente ad una visione dei rapporti umani, seppur atroce, comunque provvidenziale. Tutto sembra quadrare, nulla è lasciato al caso e ogni cosa va come è normale, viste le premesse, che vada: alla deriva. Tutto “scientificamente” spiegato, ma inspiegabilmente ancora più ambiguo. Perché stupisce il modo in cui i protagonisti approdano alla disfatta esistenziale. Tutti a prostituirsi non più alla ricompensa economica dei trenta denari ma al mero compiacimento per ogni forma di tradimento messa in atto. Sadici, i protagonisti del film. Di un sadismo (torniamo all’aggettivo iniziale) agghiacciante.

Maps to the stars è il capolavoro assoluto di Cronenberg. È la summa stilistica, artistica e contenutistica del suo cinema. Nulla di nuovo nel soggetto, sia chiaro. È la banale storia di sei personaggi che si destreggiano tra i meandri di una Hollywood ostentatrice, materialista e ossessiva: un autista amorfo e arrivista; un’attrice fallita affetta da complesso di inferiorità nei confronti della madre defunta, grande attrice del passato; una famigliola composta da un padre fisioterapista, una moglie agente di spettacolo del figlioletto, a sua volta attore scapestrato e già tremendamente vissuto; infine una ragazza, appartenente anche lei alla suddetta famiglia, uscita da un ospedale psichiatrico dove era stata condotta da bambina dopo aver appiccato il fuoco in casa (per il quale evento rimase sfigurata). Il film sembra essere una trasposizione post-moderna di Inseparabili, altro meraviglioso e struggente film del regista canadese, con protagonista l’immenso Jeremy Irons. Le analogie sono molte: dal tema dei fratelli indissolubilmente legati da un destino comune, anche se apparentemente tanto lontano, alla presenza dell’elemento sessuale visto come ossessione da esorcizzare o assecondare (filo conduttore anche, e soprattutto, di un altro film di Cronenberg, Crash), fino al tema dell’estrema paura non tanto di invecchiare, quanto più di invecchiare con evidenti ma inevitabili segni dell’età (una sorta di morboso terrore della mutazione – tema sempre centrale in Cronenberg – , questa volta biologica). Ma se in Inseparabili il finale crea sconforto e, perché no, commozione, in Maps non c’è spazio per le lacrime. Fratello e sorella si accasciano senza simboleggiare La Pietà di Michelangelo, come avviene per i due gemelli interpretati da Irons. Filo conduttore provvidenziale, si diceva, ma questa volta Dio non si mostra. Non c’è affatto alcuna forma di compassione o pietà ostentate dal pur sempre ateo (?) Cronenberg. Si ripropone il tema dell’irrimediabilità del danno, frequente nel suo cinema, da Rabid a Pasto nudo, da Videodrome a A history of violence, da La promessa dell’assassino a Spider, fino a Cosmopolis. Come i protagonisti di tutti questi film anche ora vi è un peccato originale incontrovertibilmente traviante e irredimibile. E la suggestione principale è rappresentata dal fatto che questa colpa primordiale risale ai genitori dei due protagonisti, in realtà inconsapevoli, prima di sposarsi, di essere fratello e sorella. Si può dunque leggere un riferimento esplicito alle vicende di Edipo, macchiatosi di patricidio e incesto, le cui terribili colpe ricadono sui figli, impegnati a scannarsi vicendevolmente per tutta la vita (si tratta di Eteocle e Polinice, protagonisti della tragedia di Eschilo I sette contro Tebe). Ma i due figli protagonisti del film sommano ad una tendenza omicida innata (la sorella piromane aveva da piccola tentato di uccidere il fratellino e quest’ultimo, precoce star di Hollywood, manifesta di continuo una voglia repressa di uccidere) un amore incondizionato, quasi carnale, incestuoso per retaggio parentale. Ma ciò che più spiazza della trama del film è l’inspiegabile turba psichica della ragazza. Perché ella si giustifica per aver dato fuoco alla casa da bambina indicando la sua colpa come una giusta vendetta nei confronti dei genitori, rei di essere, come detto, fratelli di sangue. Da qui un atroce ritratto, realizzato da Cronenberg, della società contemporanea, vittima, inconsciamente, di vecchi ma ormai radicati retaggi “psicanalitici”, attribuendo colpe e delitti a individui in (più o meno) buona fede e dando necessariamente e freudianamente (ahi noi!) una motivazione logica a tutto ciò che appaia già un tantino umano. C’è poi chi potrebbe dare una lettura “deterministica” alle vicende narrate nel film, motivando cioè le azioni e le reazioni dei due giovani protagonisti con l’alto rischio genetico e biologico che l’accoppiamento tra due consanguinei può portare con sé. Ma questo aspetto pertiene più ad un’aderenza tematica al “solito” cinema del regista che ad un orientamento darwiniano di fondo. Ci riferiamo alle mutazioni, come detto, alle spiazzanti ed ossessive metamorfosi, alle anomalie, fisiologiche, genetiche, etiche. Ecco allora riproporsi il tanto discusso tema cronenberghiano del rapporto conflittuale tra scienza e uomo, tra medicina e uomo. Tra uomo e natura, in ultima istanza. Sì perché la consueta buona fede insita in ogni protagonista dei suoi film si schianta con la “coleridgiana” incapacità di travalicare i limiti che la Natura ci impone, di trascendere la condizione umana. In Rabid per esempio, il buono del film è il dottore, impegnato nel tentativo di migliorare la qualità della vita di persone sfigurate da incidenti, attraverso la chirurgia plastica. Il cattivo, ragionando in termini fumettistici, è, invece… sempre lui! Perché artefice, seppur involontariamente, di una violazione evidente del “codice naturale”, avendo creato un siero sì rigenerante ma accidentalmente capace di trasformare in mostri. In Maps to the stars si nota invece l’inclinazione ad un’anomalia etica, l’inusuale matrimonio cioè tra fratelli e il cortocircuito psichico che esso sembra provocare. Ma il denominatore comune è sempre quello: tutti, proprio tutti i protagonisti della filmografia di Cronenberg si riscoprono artefici e/o vittime di una controtendenza, di uno scardinamento sociale, di un cambiamento. E per questo, nonostante tutto, incorrono sempre in una morte più o meno purificatrice. Tuttavia l’elemento che fa da collante tra le varie vicende di questo film è il fuoco. Fuoco che brucia ma non rigenera o purifica affatto. Immagine che, secondo la tradizione biblica, si contrappone a quella dell’acqua, richiamo ad una rinascita catartica (i sogni di Noè nell’ultimo film di Aronofsky ne sono un esempio).

Dunque gli episodi di questo film vanno ben oltre la semplice espiazione attraverso la morte (eXistenZ o Cosmopolis) o, nei peggiori dei casi, attraverso l’apocalisse (Rabid sempre) o il terribile peso di restare in vita (A history of violence o Spider): qui si parla dell’uomo spogliato di ogni sovrastruttura che il cinema troppo buonista non ci presenta mai; si parla dell’umanità nuda, capace di liberare ogni sorta di immediato e selvaggio approccio alle relazioni umane; e non si parla solamente (si badi bene!) di istinti ferini, ma di disarmanti calcoli razionali; si parla di cattiveria allo stato non lavorato, grezza, ma comunque ragionata. A tal proposito la scena più emblematica è quella nella quale un’attrice fuori giri, arrivista, bugiarda e superba, interpretata da Julianne Moore (piccola annotazione: interpretazione da Regno dei Cieli!), si esibisce in un tifo da stadio dopo essere venuta a conoscenza che è entrata nel cast di un film dopo che la sua rivale professionale ha dovuto dare forfait a causa della morte del figlioletto. Chi non ha mai esultato per le sventure altrui, scagli la prima pietra! Imbarazzante insomma lo scarto tra un Cronenberg e un registucolo qualunque alla Robert Redford, il quale si accontenta dell’etichetta del “politicamente corretto”, dello scontato, dell’irreale al fine di non mostrare ciò che potrebbe risultare fastidioso, scandaloso, provocatorio, “troppo reale per essere vero”. E chi ha visto questa scena avrà almeno una volta indirizzato a se stesso la domanda “Sarò forse anch’io così?”, scongiurandone subito l’eventualità, gettando nell’oblio quella dannata e troppo martellante visione. Dimenticare tuttavia questa scena sarà difficile, perché Cronenberg utilizza tutto ciò che il suo mestiere gli concede al fine di renderla unica: tralasciando la messinscena (da sempre perfetta in Cronenberg e unica nel riuscito tentativo di bilanciare temi caldissimi ad una regia fredda e non troppo “americana”), è da brividi, tornando al tema del “glaciale”, la musica che fa da sottofondo alla scena. Premettendo che non si può negare una certa componente orrorifica in ogni film di Cronenberg, anche in quelli dichiaratamente noir (La promessa dell’assassino), qui questa tendenza è espressa (oltre che dalle continue visioni fantasmatiche e mortifere del ragazzino e del personaggio della Moore) da una base inquietante, tremendamente tuonante, che fa da magnifico e straniante contraltare al canto gioioso della donna. Due musiche polari e antitetiche insomma, quella diegetica e quella extradiegetica, che attivano un meccanismo nello spettatore di vergognoso spaesamento, che sa molto, come detto, di rispecchiamento comportamentale (seppur tacito), di una parte di personalità latente in ognuno di noi, da nascondere e mai ammettere di avere. E ancora. Cronenberg vuole farci sentire talmente tanto parte di quella “danzante e galleggiante merda del mondo” che ci offre un altro assist: chi non ha provato ribrezzo allorquando l’avvenente e aitante giovane autista, interpretato dall’inespressivo Pattinson, si approccia sessualmente con la ragazza sfigurata, anche se per secondi fini? O chi non ha goduto personalmente del rapporto sessuale dello stesso Pattinson con la sensuale Julianne Moore? Ma non c’è da allarmarsi troppo, perché nolente o volente l’uomo è questo, frutto di un inesauribile quanto palliativo tentativo di omettere certe tendenze sinistre in noi insite. Ma basta ammetterlo, onestà intellettuale! L’anima, la sua cura, l’inattendibilità della bellezza esteriore e la priorità della parola sul tutto il resto: balle! Retaggi solo retorici di un Occidente troppo Occidentale già da qualche secolo. Una critica al west sbraitata dal west per eccellenza, quello dell’America tronfia e piena di sé, dei “pionieri di Hollywood”, degli Oscar barattati in cambio di proseliti americanistoidi, della fame di fama. Quella dell’industria cinematografica che dietro apparenze solidali cela un mondo balordo e meschino, fatto di ghigni concorrenziali e sgambetti scorretti. Stando così le cose, sfuma ogni piacere nella visione di un film, perché, dopo Maps to the stars, sembrerebbe quasi che ogni produzione sia afflitta da sotterfugi e scalate di siffatto genere. Questo è il cinema, il vero cinema. Mai realmente arte, a livello realizzativo; ma soprattutto gioco di ombre, “dietro le quinte”.

A volte le parole sono vane per tipi come Cronenberg. Ma parlarne, soprattutto dal pulpito di un cinema di paese, fa sempre bene. Evidenziandone genio, valenza artistica, levatura culturale. Anche solo liquidando Maps to the stars come il film dell’anno. Perché lo è, persino a livello tecnico, con trovate congeniali alla causa: primi piani con grandangoli appositamente diffusi (presenti soprattutto nel suo cinema di inizio millennio – eXistenZ, Spider, Cosmopolis) ma non esasperati (alla Joel Schumacher per intenderci); fotografia “plastica”, lucida ma perfetta, molto simile al suo film precedente, che vede nel direttore Peter Suschitzky (ormai storico collaboratore di Cronenberg) uno degli artisti più eminenti nel campo, con la sua capacità di gestire, (r)innovare e rivoluzionare le luci come nessuno al mondo; infine la solita messinscena, quella che farebbe pensare al regista canadese già a due miglia di distanza (anche se sono presenti più carrellate e la regia risulta un tantino meno fredda del solito). Film viscerale, sviscerante, come tutti gli altri di questo genio assoluto, che, insieme a Linch, anche se in modo diverso, ci propone una forma di cinema che agisce sull’inconscio e lì sedimenta, giorno dopo giorno. Tragedia greca post-moderna, “film teatrale” dai toni apocalittici, ilarotragodìa un po’ noir, satira pungente. Tutto questo è Maps to the stars, che fa di David Cronenberg un kamikaze (più che un terrorista come Fulci) dei generi, miscelandoli e confondendoli; capace, buttandosi a capofitto, di scardinare la concezione di cinema dal suo interno, parlando di esso, destabilizzandolo, annichilendolo, decratandone solennemente, di fatto, la fine. Non più “metacinema”. Spazio all’“anticinema”!

Ps: ringrazio Salvo, il quale, con la sua instancabile (contro)informazione cinematografica tra le più giovani generazioni, ci ha fatto conoscere il più grande regista vivente. Con la speranza che, adesso che sappiamo chi sia, Cronenberg possa consegnarci ancora altri capolavori.

Gabriele Santoro

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