BUONO A CHI? (Su “Anime Nere” di Munzi)

Fratello silenzio. L’unico vero alleato in un periodo di frastuono bellico. L’unico antidoto a questa terribile e pandemica fobia dell’anonimato in un’epoca che sembra poter dare, molto pericolosamente, voce a tutti. A troppi, verrebbe da dire. L’unica testimonianza di fede in un mondo che comunque ci accoglie, ma che sembra confonderci. L’unico strumento di fine intelligenza, per chi sappia coglierlo, apprezzarlo, ascoltarlo. E tale indirizzo di mutangherìa abbiamo perseguito ormai da tempo in tale sede. Ci si accorge ogni giorno di più che il sovraccarico di informazioni, ipertroficamente e convulsamente scaraventateci addosso, creano un inflazionatissimo cortocircuito intellettuale per il quale sensatezza e stupidità mediatiche vengono livellate e poste con egual considerazione in uno stesso calderone. Ecco allora che ciò che qui scriviamo, seppur senza vincoli ideologici e con liberi spunti culturali, ha esattamente lo stesso valore mediatico e informativo di una qualunque esternazione o di qualsivoglia pensiero immolato al sacro altare dei social networks (si scrive così?). Il silenzio, dicevamo. L’unico modo per sentirsi narcisisticamente più ‘sperti degli altri. Affiancato al minimalismo, aggiungiamo. Orientamento esistenziale da sempre seguito dagli ‘sperti di cui sopra. E in un salvifico piano di silenziosa meditazione che ha pervaso da tempo il nostro sito, inseriamo quest’oggi una parentesi di cervellotico blateramento, ma a buon fine. Perché desideriamo parlare di un eccezionale film del 2014. Per la regia del buon Ciccio Munzi, Anime Nere.

Film italiano, italianissimo. Epico ma intimo, a metà tra un’opera declamatoria e una appena sussurrante. Radicato in una dimensione claustrofobicamente regionale (se non addirittura provinciale) ma ispiratosi a categorie drammaturgiche universali. Anime Nere ci restituisce un cinema che non vedevamo da tempo, rinnovando il noir in funzione ipertragica, non dimentico tuttavia della magnifica e recente lezione di Garrone (parliamo naturalmente del Garrone più rivolto all’onirico, come in Reality). Si badi bene: in Anime Nere non vi è nulla di surreale o surrealistico, ma ciò che balza agli occhi è un’impostazione narrativa contaminata nelle sue sostanziali componenti, divenendo continuamente altro da sé. Esteticamente, drammaturgicamente parlando.

Stiamo parlando del miglior film italiano degli ultimi tempi probabilmente (e il cinema italiano, ormai da un paio di anni, ci sta viziando con del cinema di qualità che non sempre viene lodato a sufficienza: Educazione Siberiana, Il capitale umano, Non essere cattivo, Il racconto dei racconti, Veloce come il vento). Se ad inizio nuovo millennio si poteva parlare di uno spartiacque cinematografico rappresentato dal capolavoro di Sorrentino L’uomo in più, adesso si può già parlare di un prima e un dopo Anime Nere. Il film narra le vicende di una famiglia malavitosa proveniente dalla Calabria implicata nei loschi affari edilizi del Nord Italia e nel traffico di stupefacenti. Collaterali vicende svoltesi nella terra natia portano alcuni membri della famiglia a tornare al Sud, innescando una spirale di sangue e violenza. Fin qui niente di nuovo. Una trama trita e ritrita di coppoliana memoria che vede protagonista una famiglia alle prese con i “doveri” e i necessari adempimenti della cupola. Ma il finale del film, esclusivo nella sua potenza tragica, irrompe terribilmente. Uno dei tre fratelli decide, dopo la morte di alcuni cari, di porre rimedio al terribile andazzo in maniera estrema, recidendo ogni legame familiare e uccidendo il resto della sua famiglia.

Esistono a nostro avviso due tipologie di film. Quelli che consegnano una chiave interpretativa, di qualunque levatura intellettuale e culturale si tratti, che pertiene comunque ad un ambito strettamente filmico; e quelli, poi, che sembrano trascendere il limite della semplice pellicola da consumare in una saletta cinematografica e che, impregnandosi di letterarietà, colti modelli e visioni ampie, sia a livello antropologico che ontologico, entrano a pieno diritto nel novero dei capolavori (non limitato al solo ambito della Settima Arte). Anime Nere appartiene di certo a quest’ultima categoria, palesatasi in realtà negli ultimi minuti del film, quando da una semplice storia di regolamenti di conti tra gente dai costumi non del tutto irreprensibili si passa ad una liricissima uscita di scena del protagonista assoluto, sino a quel momento, invece, semplice comprimario. E l’eroe tragico, approdato alla cosiddetta anagnorisis (‘riconoscimento’ e ‘presa di coscienza intellettuale’), alla maniera edipica, nella più sconcertante solitudine, decide tuttavia, diversamente dal riferimento drammatico di Sofocle, di agire con raziocinio, seppur con le lacrime agli occhi. È un genio a invadere la mente del nostro protagonista, quasi di matrice divina (emblematica a tal riguardo la sequenza in cui l’uomo beve una soluzione di acqua, medicinali e polvere raccolta da un simulacro, a testimonianza della sua strenua pietas). Una ferrea logica del calcolo. La computazione delle nefaste conseguenze per la famiglia, qualora tutti rimanessero in vita, supera di certo ogni sentimento di affetto e legame fraterno. Il Male, geneticamente insito nel seme familiare, va estirpato sin dalle sue radici. Nessuna ingombrante pietà, nessun compromesso. Solo ciò che è necessario. E applicando un ulteriore raffronto con l’universo tragico della Grecia del V secolo, il protagonista finale si palesa nella doppia veste di eroe (di certo non antieroe o antagonista) e di organon risolutore, di deus ex machina. L’inettitudine che delle volte attanaglia gli eroi tragici, capaci di agire, quando riescono a farlo, solo sulla propria persona, stringendo il campo di focalizzazione, persino in maniera claustrofobica, su un solo individuo, in questo film diviene titanismo. Un film audace insomma, apparentemente bruto, di sicuro non politicamente corretto.

Abbiamo visto come Anime Nere rappresenti un solenne incontro tra realismo narrativo e romanzata convenzione drammaturgica. Tale commistione è funzionale ad accattivare un pubblico più vasto (?), ma la finalità ultima è di sicuro quella di creare un genere novello. Perché, seppur ancorato alla tradizione e calato interamente in una realtà storica, risulta infine un fiume in piena. Capace insomma di parlare dell’uomo prima ancora che del determinato ambito in cui le vicende si svolgono. Eppure riscontriamo una critica feroce al sistema imprenditoriale del Nord Italia, che non subisce, come si potrebbe pensare a primo acchito, la criminalità organizzata del Sud, ma la strumentalizza e la custodisce gelosamente. Appalti truccati e speculazioni edilizie a servizio di quello che sarà uno degli eventi più smargiassi e magniloquenti della recente storia italiana: l’Expo. E l’invettiva si materializza nell’unico modo possibile al fine di non renderla stucchevole: accennandola appena. Una critica formale insomma, senza altri blateramenti, derivante dalla presentazione oggettiva dei soli fatti in cui lo spettatore coglie lo scatologico marciume. Una denuncia peraltro ante litteram che precede ogni successiva indagine intrapresa sui loschi affari edilizi degli ultimi anni. Ante Mose, per esempio, con tangenti e finanziamenti illeciti ad esso annessi. Munzi insomma mischia le carte, guardando alla cronaca, per poi accantonarla e raccontare la storia di una famiglia. Con una visione a tratti deterministica, quasi zoliana. Perché il sangue sembra non mentire mai di fronte alle proprie origini, e se Milano rappresenta una sicura via di fuga per i due fratelli emigrati al Nord, il fratello rimasto in Calabria riceve pressioni insostenibili e, seppur evaso sin da piccolo dal mondo del delinquere, vi si ritrova catapultato a causa del figlio. Genetica predisposizione, innata tendenza, esposizione alla morte. Ecco giustificato il suo estremo gesto.

Nel mondo della post-globalizzazione (in cui tale fenomeno sembra aver raggiunto uniformemente ogni angolo dell’Occidente, dal paesino di mille anime sino alla grande città, non permettendo l’esistenza di alcuna “biodiversità sociale”), Anime Nere rappresenta un unicum antropologico, prima ancora che estetico. Un ultimissimo sguardo rivolto ad un mondo che non esiste più, che persino nell’ambito della criminalità organizzata ha strenuamente resistito ma che ha dovuto fare i conti con l’inevitabile inghiottimento da parte di altre forme di potere. Un nucleo così apparentemente incontaminabile come quello del crimine organizzato fagocitato da una particolarissima forma di progresso. Onnipresente, quest’ultimo. Terribilmente onnipotente. Chi rimane incorrotto nell’opera di Munzi è colui il quale è più spietato, colui il quale si presenta ancora allo stato grezzo, non lavorato. Seppur nell’asfissiante mondo della ‘ndrangheta, possiamo comunque segnare una netta linea di demarcazione tra un coerenza morale incarnata dal fratello più gagliardo e spregiudicato (interpretato da un grandissimo e rivitalizzato Marco Leonardi) e un tradimento genetico di fondo perseguito dal fratello emigrato fissamente al Nord (interpretato invece da un misuratissimo Peppino Mazzotta). La famiglia, strettamente ancorata al suo fondale più congeniale, vale a dire la terra natia, sembra sprofondare nelle sabbie mobili di un mondo paradossalmente più grande di lei (al peggio non c’è mai fine!), nelle paludi nordiche. Come un’azalea sradicata e impossibilitata a germogliare in un terreno non suo. E la risposta a tale inadeguatezza intrinseca non può che essere l’atto di forza di cui sopra. Esercitato contro il mondo, contro l’insistere del tempo e la sua dittatura, contro il proprio sangue. Che non mente mai, come dicevamo. Prendiamo infatti in considerazione, per concludere, una ricerca di Paolo Martino sull’etimologia del termine ‘ndrangheta. Secondo lo studioso deriverebbe dal greco ἀνδραγαθἰα (andragatìa), indicante la personalità dell’uomo valoroso. Acquisendo col tempo un’accezione sempre più sinistra e ferina dell’ambito semantico del valore, la radice del termine è passata a identificare un corrispettivo verbo: ‘ndragarsi, vale a dire infuriare. E il protagonista finale, il deus ex machina dell’intreccio, il fratello “buono” insomma, assume entrambe le sfumature etimologiche del termine preso in esame. Egli è un galantuomo, è un uomo d’onore (nella sfumatura benigna del sintagma), un onesto lavoratore ma anche una polveriera pronta ad innescare il peggio, un represso, un pericoloso e mai testato assassino. Argomento usuale nel cinema, quello della latenza dell’ira e le sue conseguenze. Da Gli spietati sino a A history of violence. Ma questa volta l’esperienza filmica ci coinvolge personalmente. Perché è una realtà molto più prossima, che ci appare, seppur parossisticamente stirata al limite del reale, più verosimile del previsto.

Questo è Anime Nere. Una magnifica replica, e meno pericolosamente pretenziosa, al cinema iperrealistico (riduciamo la questione ad un solo, esilissimo e ridicolo aggettivo, come osano fare i più grandi critici!) di Iñarritu. Una replica inoltre a quella parte di cinema italiano (soprattutto rappresentato dalla commedia, genere, tra tutti, maggiormente dipartito) che crede di intrattenere il pubblico facendolo tuttavia riflettere sulla condizione di noi italiani medi e… bla bla bla. Tra un chiacchiericcio e l’altro, tra sproloqui cinematografici di ogni genere e registici deliri di onnipotenza, c’è chi, come Munzi, preferisce parlare di morale, ancor prima che di sciatta e miserrima etica. Senza sbraitare, nel più feroce silenzio.

 

P.S. Il film è tratto da un romanzo. La questione letteraria, tuttavia, non deve pertenere all’ambito di una recensione cinematografica.

Gabriele Santoro

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