LA MORTE DI MATUSALEMME

Sicilia? Quale Sicilia? Esiste ancora una terra identificabile con tutto quanto di peculiare sia stato accostato a tale regione nel corso dei secoli? Ed esiste ancora nel mondo una terra che possa davvero essere considerata portatrice sana di una qualche unicità culturale ed etica? Da questi quesiti bisognerebbe partire ogni qual volta ci si accosti ad un’opera (in questo caso un lungometraggio) che indaga le dinamiche di pensiero di un popolo territorialmente circoscritto. Prendendo in esame il nuovo film del siciliano Francesco Lama, balza subito agli occhi l’impossibilità di approcciarsi ad un prodotto cinematografico in modo usuale. I cineasti della nostra terra si limitano infatti, oramai, alla sola ed incondizionata esaltazione dei nostri luoghi. Un pregiudiziale elogio, superbo e traviante, di una solo presunta condizione di superiorità culturale e soprattutto etica. Il film in questione, I Siciliani, tenta purtuttavia di fugare ogni fuorviante luogo comune, analizzando la cultura popolare del Siciliano, se non con verace critica, con una comunque decisa sospensione di giudizio. Il protagonista, disoccupato storico, comincia a scrivere un libro sui suoi corregionali, sottovalutando forse la questione e credendo sia una matassa da poter sbrogliare in men che non si dica. Col tempo, dopo parecchie interviste a personaggi famosi e non, comincia a realizzare che ciò che dovrebbe caratterizzare positivamente un intero popolo è per lui fonte di disgusto nauseabondo. La Sicilia, la vecchia e unica Sicilia, fatta di identitari “scrusci” di carretti, di convinzioni, di ossessioni maniacali, di totale rassegnazione celata sotto urlii da bar solo apparentemente titanici, di lassismo sbraitato, di azione silente, di mediocre millanteria per un passato glorioso di cui in realtà non si è stati protagonisti, questa Sicilia qui sembra creare inaspettatamente profonda repulsione nel protagonista, che infine maledice lo stesso libro da lui scritto. E proprio il tema della maledizione lambisce tutta la narrazione: in parecchi momenti del film si ha come l’impressione che il protagonista venga dannato da una qualche entità superiore, in quanto reo di voler trascendere gli umani limiti e voler sondare l’insondabile, vale a dire la nostra terra (ne è un esempio la sequenza nella quale delira difronte all’ennesima e quasi infondata esaltazione gratuita della Sicilia da parte di un paesano). Le categorie di pensiero alla base della nostra sicilianità, sembra voler asserire il film, vanno apprese inconsciamente e passivamente, e qualora le si indaghi con cognizione di causa e con coscienza critica, finiscono per condurre all’instabilità psichica.

Questo è il nostro film: una critica all’inflazionatissima e boriosa esaltazione del carattere di noi Siciliani. Una matura presa di posizione del regista, che consegna allo spettatore un’alternativa chiave di lettura del film: il siciliano medio non è nessuno dei personaggi ritratti nel film, ma è il protagonista stesso, che dall’alto del suo amore per la scrittura crede di poter svoltare e scrivere un libro che lo faccia diventare finalmente benestante. Il classico atteggiamento facilone del Siciliano, che crede di spazzare via ogni cosa gli capiti a tiro, ma che con la stessa sveltezza decisionale diviene inerte e improvvisamente rinunciatario, come se il disinteresse finale fosse direttamente proporzionale all’entusiasmo iniziale.

Abbiamo elogiato la maturità critica del film, inusuale per una produzione locale. Tuttavia ci sentiamo di fare un ultimo passo in avanti, ancora oltre il finale tra l’onirico e lo spirituale, passando per quello spiraglio che il film sembra comunque mostrarci. Bisognerebbe indagare antropologicamente il Siciliano medio, ponendosi difronte ad un unico fondato quesito: è davvero dotato, oggi, di una sua esclusività caratteriale? Noi crediamo che la globalizzazione abbia livellato ogni popolo verso un’inferiore condizione. Anzi, infima. Nel nome del progresso, abbiamo accolto ogni diavoleria sia entrata nella nostra società persino in paesini come Agira. Non esiste più quel naturale limes che faccia da barriera culturale; siamo, anche noi paesani, “connessi globalmente, ma disconnessi localmente”. E se il modello globalizzante potrebbe pure avere ragione di esistere in un contesto urbano (?), sovrapporre un modus operandi et cogitandi prettamente cittadino ad una dimensione paesana crea invece un cortocircuito intellettuale ed intellettivo. Ecco allora che il discorso di Buttafuoco, nel film, sulla saudade dei Siciliani nel mondo sembra svanire sotto le macerie di un mondo che non esiste più. Gli “scrusci” di carretto sono solo ricordi da rispolverare in musei adibiti all’immobilismo culturale, le piazze sono sempre più vacanti, gli incontri vis-à-vis vengono soppiantati da blateranti dibattiti su circuiti virtuali, le maniacali ossessioni divengono crisi, complessi di adattamento, incapacità decisionali, in ultima analisi sociopatia (questo processo ha fatto sì che persino delle patologie prettamente cittadine si insinuassero nelle nostre realtà paesane). Il Siciliano, con i mezzi odierni, vorrebbe abbracciare il mondo, un po’ come un diciottenne appena patentato. Ma si limita, invece, a sbandierare convulsamente e compulsivamente qualche adesione o approvazione tramite i socials (si scrive così?). Esistono i vecchietti nei circoli delle piazze, è vero. Ma sono pur sempre vecchietti, e, sic stantibus rebus, finiranno la loro esistenza spazzati via come granelli di sabbia nel deserto culturale. E cosa rimarrà? Solo ciò che ci siamo conquistati, manco fosse il Vello d’Oro, dopo un’inutile corsa verso l’adeguamento al mondo. Che, tuttavia, continuerà a correre sempre più veloci di noi. E noi ad inseguirlo, e così, ricorsivamente, si continuerà a fare per il resto dei giorni che ci tocca vivere in questo mondo così beceramente ignorante. Questa Sicilia qui, e soprattutto questa Agira qui (parlando di ciò di cui abbiamo diretta conoscenza), il film sembra presentarla timidamente, in piccoli sprazzi di riprese. Un mondo ormai sommerso, un “matusalemme culturale” morto e sepolto. E l’emblema di questa agonizzante dissolvenza etica, quasi indirettamente e involontariamente, è uno dei tanti nostri compaesani presenti nel film nella veste di comparsa, il quale ci ha lasciati qualche tempo fa. Un anziano signore dai tratti fisiognomici marcati, un vero e proprio vegliardo. L’unico, nel film, ad aver compreso senza pleonastici giri di parole la condizione del vecchio Siciliano medio (dirà in una scena «Siciliani, accussì è, su vi piaci»), tuonando nel silenzio generale di una piazza che già appare fantasmatica. Anche lui andrà via, realmente, portandosi dietro un pezzo di quell’Agira che fu, e che oramai appare sempre più un surrogato, peraltro scadente e arrangiato, di realtà cittadine a noi aliene. E il processo appare irreversibile: l’Agirino, e il Siciliano in generale, non sarà più diverso da nessuno. Né migliore né peggiore (il che gli conferirebbe comunque una certa esclusività). Uguale, terribilmente uguale al resto del mondo, perfettamente allineato e coperto. Del resto, si sa, l’uguaglianza non è mai stata un valore.

Gabriele Santoro

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