L’IMPREVEDIBILE APONIA DELL’OLTREUOMO (su “Birdman” di Iñáritu)

Maledette libere associazioni! Freud non ci aveva mica avvertito delle controindicazioni. Perché esse sembrano vertere sempre su luoghi comuni categorizzati sommariamente. Ad un termine, ad un evento viene sempre associato ciò che più dovrebbe essere oggetto di oblio. Se il nostro psicanalista, per esempio, pronunciasse la parola Birdman, noi risponderemmo, come fosse un flusso inconscio e senza esitazione, con la parola Oscar. Che mortificazione, per quest’ottimo lungometraggio firmato Iñáritu. Perché ciò che proprio non gli si dovrebbe affibbiare è quella indegna parola. Che nulla significa. Che nulla aggiunge o sottrae ad un film, su cui non bisogna riporre aspettative. Quel termine sortisce a volte, anzi, un effetto contrario: corrompe inesorabilmente ogni opera o autore a esso sussunti. Come un po’ il Pallone d’oro, il Premio Nobel o il Festival di Sanremo, quello dell’Academy di Hollywood è un gran galà del trastullo mediatico, niente di più. Quindi rimuoviamo dal film di oggi, Birdman, l’alone che ben quattro statuette gli hanno lasciato. Le quali non compromettono tuttavia il lavoro del regista.

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Premessa: quella cui abbiamo assistito con Birdman è una quasi traumatica conversione al modello registico massimalista e hollywoodiano da parte di Iñáritu. Le riprese di 21 grammi, per intenderci, sono belle che rinnegate in questo film. È vero, la camera a spalla si scorge ancora, ma ciò che nei primi film sembrava essere (anche se non sul piano del montaggio, da sempre poco usuale nel regista in questione) un manifesto di Dogma 95, il movimento cinematografico propugnato da Lars Von Trier a metà anni ’90, ha lasciato adesso spazio ad espedienti tecnici virtuosistici. La castità delle riprese, insomma, viene adesso disattesa, per via degli interminabili carrelli, dei piani sequenza estenuanti e degli effetti speciali (comunque metacinematografici, come vedremo). Il tutto, però, è non solo giustificato ma anche perfettamente congruente con le intenzioni autoriali. Questa fatica di Iñáritu non va dunque ad inscriversi nell’ambito delle svendite totali al miglior acquirente hollywoodiano, ma ad un moderato ingresso nel circuito cinematografico a stelle e strisce con un linguaggio rinnovato ma, se non altro, corroborato dai temi trattati. Vediamo perché.

Il film narra di una star hollywoodiana a fine carriera, il quale vuole dimostrare, dirigendo e interpretando tra mille tragicomiche peripezie uno spettacolo a Broadway, di non essere un buono a nulla e aver meritato l’enorme fama del passato. Raggiunta, quest’ultima, grazie ad un supereroe interpretato in una saga anni prima, Birdman appunto. Questo ruolo gli sta stretto ormai. O bisognerebbe dire, piuttosto, abbastanza largo. Difatti ciò che sorprende per prima cosa nel film è il suo rapporto nevrotico, o persino paranoico e potremmo dire post-traumatico con il suo passato, con il suo alter-ego in costume da uccello piumato. Che lo invita continuamente e tirannicamente ad abbandonare la baracca chiamata teatro perché eccessivamente claustrofobica. Per buona parte del film sentiamo le voci che lui stesso sente tuonare, vediamo le stesse cose che vede lui. Pensando persino, per un attimo, che abbia davvero quegli stessi superpoteri che aveva in scena parecchi anni prima (cogliamo infatti il protagonista che muove telecineticamente gli oggetti). Frutto della sua immaginazione probabilmente, ma questo non importa. Importa piuttosto la modalità con la quale sin dall’inizio il film sovrapponga non solo piano surreale filmico a piano reale filmico, ma anche e soprattutto piano reale strictu sensu, piano “intertestuale”, piano teatrale filmico e piano teatrale extracinematografico tra loro. Realtà e finzione più o meno sbandierate costituiscono una trama intricatissima di suggestioni e riferimenti e il film non si esaurisce sicuramente al solo circuito strettamente cinematografico. Il rapporto tra cinema e teatro è senz’altro visto dialetticamente, e a spuntarla non è di certo un mondo artistico sull’altro. Diversamente da quanto si possa pensare inizialmente, Hollywood non trionfa affatto nel finale del film. Che condanna incondizionatamente entrambi gli ambiti. Da una parte è sotto accusa lo pseudo-integerrimo teatro di Broadway, oggetto di maniacali rivalse di attorucoli ormai sul viale del tramonto che sembrano tuttavia meritare una possibilità più di tanti altri attori teatralmente affermati. Luogo di snobbismo ostentato ma vacante poi; di pellicce da poco acquistate con i saldi di gennaio e da esibire con aristocratica eleganza; di critici e recensori comodisti e pantofolai, che rifuggono da ogni iniziativa e possibilità di mettersi in gioco criticando tuttavia chiunque osi farlo. «Tu scriverai una brutta recensione sul nostro spettacolo solo dopo che noi avremo fatto una brutta interpretazione», ricorda, nel film, il personaggio di Edward Norton alla giornalista del New York Times. L’azione impavida anche se disastrosa vale più di mille belle parole, sembra voler dire. E mettersi in gioco in un ambiente così cannibalesco è da veri temerari. Teatro visto dunque come microcosmo ermeticamente chiuso ai più, perché selettivo. O, semplicemente, perché emblema di una classe medioborghese che crede di rappresentare la guida intellettuale e culturale di un paese. Teatro che risulta in realtà (ed è questa la più feroce critica) tremendamente popolare, o comunque più di quanto la puzza sotto il naso di chi lo riempie dia a vedere. Lo spettacolo messo in scena nel film, infatti, risulta all’unanimità un successo solo dopo che il protagonista escogita involontariamente una soluzione a dir poco trash. In preda ad una grave crisi di identità, decide di sostituire la pistola finta del finale dello spettacolo (l’adattamento teatrale della raccolta What we talk about when we talk about love di Raymond Carver) con una vera. Cercando di suicidarsi in diretta, come atto di totale rinnegamento di questo mondo teatrale in cui si sente perennemente afflitto da un complesso di miserrima inferiorità. Ma, proprio come uno dei protagonisti della raccolta di Carver, anche lui fa cilecca, sfigurandosi il viso di fronte alle acclamazioni e ovazioni dello stolto pubblico pseudo-impegnato. Dimostrando e apprendendo involontariamente quanto sia balordamente facile stupire il pubblico o, per meglio dire, quanto il pubblico sia facilmente scuotibile attraverso trovate di cattivo gusto, imprevedibili e fortuite. Perché il protagonista del film avrebbe voluto semplicemente morirci su quel palco, senza gustare il sapore della fama che realmente conta. Ma dal fetore della morte passa immediatamente alla gloria (paradosso!) senza stazioni intermedie. E una volta risvegliatosi dall’operazione e riscopertosi vivo, capisce che è davvero impossibile fare qualcosa di artistico nell’America di oggi, e che ciò che dovrebbe essere uno sfogo suicida e disfattista (non nichilista) altro non viene visto se non come un espediente iper-realista, originalissimo e geniale, apprezzato persino dalla critica dotta per eccellenza (rappresentata dalla giornalista di cui sopra), che credevamo non così facilmente entusiasmabile. Una sequenza che sembra insomma essere l’epitaffio della cultura e dell’arte occidentale, dove ciò che è artistico viene snobbato e ciò che è solo visivamente impattante genera ingannevolmente becero entusiasmo («Il sangue scorre veramente sul palco di Broadway», scrive con patetico trasporto la giornalista). Il che crea una ancora più profonda consapevolezza di sconfitta nel protagonista, sempre più attonito di fronte al mondo mediatico e sempre più mediaticizzato. Ancor più solo, soprattutto. Perché scopre una spiazzante superficialità anche nel suo migliore amico, nonché suo agente. Reo, quest’ultimo, di aver esultato puerilmente per l’ottima risposta di pubblico e critica alla prima dello spettacolo in cui il suo disgraziato amico ci stava per rimettere “le penne”. È l’ennesima conferma, per quel pover’uomo, che la fama (o, per meglio dire, la sua aspettativa mediatica o virtuale, tra followers di Twitter, amicizie di Facebook e visualizzazioni di YouTube)  soffoca tutto il resto. Persino il denaro, figuriamoci amicizie e amori parentali (la figlia appare come una tossica non quando si droga ma quando si dimena sui social networks). Per questo il protagonista diviene superiore rispetto alla miseria del mondo, abbandonando sia il teatro, che lo ha definitivamente annichilito, che il suo ossessionante Birdman, che aveva pur sempre previsto le sue delusioni drammaturgiche. Divenendo non supereroe, ma superuomo, o, per essere più corretti, oltreuomo. Capace cioè di ristabilire una struttura etica del mondo in cui vive attraverso la sua sola e personale morale. Riuscendo, questa volta sul serio, a scrollarsi quelle terribili e pacchiane piume di piombo e a volare (ci riferiamo agli ultimi fotogrammi, in cui la figlia si affaccia alla finestra e lo scorge fluttuare nell’aria). Ma non è il trionfo di un eroe, piuttosto la sconfitta del mondo circostante, galleggiante nel vuoto pneumatico dell’indifferenza reale e della notorietà virtuale. L’unico modo per continuare a vivere, sembra rivelarci il film, è mantenendosi al di sopra di tutto, raggiungendo cioè una sorta di imperturbabilità, di aponia (assenza di dolore) che ci permetta di volare strafottentemente altrove.

Ma noi siamo poveri cristi. E un passato glorioso da star hollywoodiana neppure ce lo abbiamo. Forse meglio così, chi lo sa. Perché diminuiscono inesorabilmente tutte le aspettative che tiriamo fuori dalla vita. Chi come il protagonista del film ha per anni vestito i panni di un dio vestito da uccello è di certo più soggetto a deliri di onnipotenza. Pensando di poter riallacciare la maschera e tornare a combattere giganteschi pterodattili. Consapevole, tuttavia, di essere tornato sulla terra e tra i mortali allorquando al nemico mostruoso e titanico si sostituisce al massimo una biondina viscida seduta in una sala teatrale che si è costretti a fronteggiare. Anche il nemico si minimizza, creando umiliazione. Per noi invece è molto più facile volare al di sopra di tutto, perché comuni mortali. E il monito del film sembra proprio quello di non lasciarsi lusingare dalle sirene del successo, prima che sia troppo tardi.

Non sfugge alla critica, naturalmente, neppure Hollywood. Vista anch’essa, anche se non direttamente e dall’interno, come un universo svuotato di ogni spunto culturale. E Iñáritu smonta la magniloquenza eccessivamente sovraesposta degli effetti speciali del cinema contemporaneo nell’unico modo possibile, rappresentandoli nel migliore dei modi. Certo, si sarebbe preferita una scelta alternativa, quella per esempio di mostrare effetti speciali macchiettistici da anni ’90, volutamente difettati insomma, schernendoli davvero e detronizzandoli (come fa Cronenberg, nell’ultimo Maps to the stars). Tuttavia, quelle riprese colossali si possono leggere come un momentaneo desiderio di ritorno a quel tipo di cinema da parte del protagonista nel momento in cui è ormai vecchio e inetto. Inoltre, le maxi produzioni holliwoodiane dell’età dell’oro del protagonista lasciano spazio ad una realtà pecuniaria ben diversa, quella del fiacco autofinanziamento dello spettacolo teatrale con rischio pignoramenti. Da notare, infine, come la critica verso teatro e cinema siano convulsamente impattanti. Il carrello e il piano sequenza (non si tratta, nel film, di uno unico, ma di carrelli prolissi ma interrotti in punti bui) sono al tempo stesso dei peculiari tratti cinematografici ma anche ciò che più avvicina la settima arte al teatro, come linguaggio estetico, come contemporaneità d’azione.

Infine va analizzata la relazione tra film e realtà effettuale. Quella che vede insomma Michael Keaton eccezionale protagonista di un film nel quale solo lui probabilmente avrebbe potuto recitare. In primo luogo per via dell’aderenza tra condizione del protagonista del film, imbottigliato nei famigerati ma asfittici panni di un supereroe, e lo stesso Keaton, ricordato dai più per la sua (volutamente) inespressiva interpretazione nei due deliziosi Batman di Burton. E proprio sotto questo aspetto sembra svelarsi il vero senso di Birdman: ciò che va riabilitato è il nome di uno degli attori più sottovalutati della storia del cinema, rendendolo soggetto di una rivalsa che è personale ancor prima che interpretativa. Perché Micheal Keaton dimostra eccome, nel film, l’imprevedibile virtù dell’ignoranza (come il sottotitolo del film recita), la sua imprevedibile virtù. Ed è paradossale che proprio a lui non sia andata quell’imbecille statuetta come miglior attore. Perché il film sembra perfettamente ruotare attorno a lui, sembra essere a sua immagine scolpito. La storia di un attore masticato, ruminato e sputato via dallo star system americano portato sullo schermo da un attore masticato, ruminato e sputato via dallo star system americano. Raccontato attraverso il teatro, ma un teatro d’astrazione, in quanto cinematografato. Riferimenti interni alla narrazione e collegamenti reali creano dunque un cortocircuito per il quale non ci si rende più conto di cosa sia vero, verosimile, surreale, credibile, finto, assieme credibile e finto… Be’, anche noi ci eravamo fatti prendere da un piano sequenza lunghissimo trasposto su carta. È la forza influenzante di Birdman, probabilmente. È la forza terribilmente dispotica del cinema.

Gabriele Santoro

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