L’ARMA VIRALE E LA FENOMENOLOGIA DELL’IDOLATRIA DI MASSA (su “Joker” di Philips e “C’era una volta a… Hollywood” di Tarantino)

Esistono ragioni della massa che la ragione non conosce. Non esiste altra spiegazione al brulicare di opinioni comuni contrastanti quando non addirittura diametralmente opposte a quelle avanzate da chi sembra avere più competenze, riguardo ad un determinato campo. Avete mai compreso realmente cosa significhi discostarsi dalla posizione della suddetta massa, proponendo una visione alternativa di ciò cui ci approcciamo, sia essa un’opera d’arte, sia essa qualcosa di più profano? Si rischia il linciaggio sociale, mediatico, culturale insomma. Si rischia l’emarginazione intellettiva e intellettuale, o per sottovalutazione (qualora, pur nella sua condizione di superiorità tematica e argomentativa, il vero esperto del settore in questione venga rigettato dalla communis opinio e ignobilmente approcciato con stupida supponenza) o per eccesso di valutazione (nel caso in cui la persona da dover ascoltare sia considerata inarrivabile nelle competenze estetiche o interpretative e dunque fin troppo alieno alla sacrosanta communis opinio). Ma dove sta scritto che ad aver ragione è l’esperto, consacrato ad uno statuto più elevato, e non magari il profano, condizionato da ciò che viralmente circola tra i media di ogni genere e che egli stesso alimenta rincarando la dose di futili e vanissime considerazioni personali? La verità, piuttosto, è un’altra: l’esperto, il vero critico, una volta appurato che sia realmente competente e non solamente un ciarlatano come tanti, è una persona comunissima, dotata di un intelletto né più altezzosamente sofisticato né superiore rispetto agli altri. Semplicemente ha consacrato la propria vita alla visione di opere, al teatro, al cinema o all’arte tout court. Approcciarsi ad un critico senza innalzarlo eccessivamente o interrarlo inesorabilmente è atto di somma umiltà, perché ponendosi sullo stesso piano dell’interlocutore ci si dispone a confrontarsi sinceramente e a farsi coinvolgere e persino persuadere, se necessario. Esiste però una seconda verità, ancora più incontrovertibile: la facoltà di giudizio, le capacità ermeneutica ed esegetica rispondono ad una ferrea normalizzazione. La bellezza, come l’Ottocento filosofico ci ha confermato, non è soggettiva. Lo è senz’altro la piacevolezza, quel coacervo insomma di combinazioni estetiche e culturali che creano nel fruitore di un’opera reazioni chimiche ed emozionali, inerenti, ciascuna di esse, alle esperienze del proprio vissuto. La bellezza propriamente detta, quell’istanza insomma che scava nelle viscere del recondito senso estetico, primordiale ma allo stesso tempo di impronta iniziatica, non può invece essere viziato da alcuna traccia di soggettività. Il giudizio estetico risponde dunque ad una grammatica dell’interpretazione, ad una più o meno rigida (esistono di certo le eccezioni e le accezioni artistiche) grammatica valutativa. La bellezza è oggettiva perché tangibile, riconoscibile, identificabile per natura. In caso contrario, non esisterebbero i capolavori, non esisterebbero gli artisti. Tuttavia la cultura di massa provoca, nella sua incontrollabile deriva cumulativa – e ingorda – di valutazioni e sentenze epifonematiche (non si tratta quasi mai di argomentazioni: la massa comunica per frasi concise e dichiaratamente incontrovertibili), un processo di natura opposta a quello da noi analizzato. La piacevolezza, specialmente se corroborata da illustri avalli, viene fraintesa e scambiata per bellezza bell’e buona. Travisando, accantonando le naturali norme del giudizio critico, dimenticando per un attimo la grammatica del bello. E pronunciando indebitamente quell’abusata, patetica e terribile parola senza comprenderne il vero significato: “capolavoro”.

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Perché questa boriosa manfrina di natura puramente teorica? Perché tutto il mondo cinematografico, in quest’ultimo mese e mezzo, si è raccolto intorno ad un unico film, ad un unico personaggio, ad un solo fenomeno di massa, inneggiando ad esso e gridando, giustappunto, all’assoluto capolavoro: Joker. Il film di tale Todd Philips, regista che abbiamo apprezzato per la scanzonata e dissacrante trilogia comica Una notte da leoni, si è cimentato questa volta in un film pseudoautoriale; un film a metà tra cineforum da salottino intellettualmente impegnato e disimpegnata visione il lunedì sera tra amici; tra tentativo di realizzare arte e nello stesso tempo intrattenimento; insomma, né carne né pesce! Non vogliateci male, ma questo Giocher è un film monco, un’incompiuta pur nella sua saturazione cerebrale da due ore piene. Diciamo ciò in virtù della grammatica, nel caso specifico cinematografica, di cui sopra. L’opera in questione presenta una sceneggiatura vacante. Anzi, a dirla tutta, sembra non presentare affatto tale istanza cinematografica (lo ricordiamo: essa rappresenta le fondamenta della realizzazione di ogni film che si rispetti; chi tenta di evitare questo passaggio, considerandolo obsoleto, non fa sfoggio d’avanguardia, ma di degenerazione artistica). Il film è completamente affidato ai soli primi piani sul protagonista, il nostro Gioacchino Fenice, e alle sue espressioni, alla sua mimica facciale, alle sue risate isteriche. Tutto quanto emani dalla sua personalità titanica davanti alla telecamera sembra far brodo. Un brodo tuttavia mescolato e rimescolato, con una eccessiva e reiterata riproduzione di medesime sequenze in momenti diversi del film (quegli odiosi balletti!), a ricreare magari, persino esteticamente e mediante una fattuale coazione a ripetere di natura psicoanalitica, quelle turbe mentali di cui il protagonista sembra soffrire. Ma non crediamo affatto che il regista sia arrivato a concepire tale considerazione. Piuttosto crediamo che Philips abbia pensato di ottenere, molto più prosaicamente e furbescamente, il massimo risultato col minimo sforzo. Conscio della comunque indiscussa bravura dell’attore, il regista sembra essersi accidiosamente cullato sugli allori della possanza attoriale, lasciando ad essa, con colpevole noncuranza, un parossistico arbitrio e mettendo da parte, giocoforza, un adeguato sviluppo narrativo, una storia più coinvolgente, per non parlare di montaggio e, naturalmente, di sceneggiatura. I dialoghi, nel caso specifico, rappresentano quanto di più scontato possa partorire la penna del più sciagurato degli sceneggiatori. Dalla bocca di un terribile e neonato criminale fuoriescono luoghi comuni che non danno alcuna profondità al personaggio, facendolo decadere dal piedistallo della magnificenza scenica, facendolo scadere. Anche qui potrebbe essere mossa un’obiezione: i paladini del film replicherebbero a questa nostra critica adducendo come argomento a favore della loro difesa d’ufficio il fatto che il regista, sconsacrando il personaggio con discorsi volutamente infantili, volesse presentarcelo come uno sconfitto molto poco affascinante agli occhi dello spettatore, al fine insomma di evitare ogni coinvolgimento emulativo (avvenuto comunque, quest’ultimo, sentendo i pareri a caldo della gente uscita dalla sala). Ma allora perché affidare una rivalsa sociale senza precedenti, una rivolta degli ultimi, dei vinti e reietti dell’ambiente metropolitano ad un personaggio così piccolo? Il film sembra dunque partire da un atteggiamento empatico, relativamente al protagonista, quasi come se il regista volesse incoraggiare se non addirittura sobillare l’indole sempre più riottosa di Giocher per finire, poi, col tracciare un quadro miserrimo dello stesso. Pensando al messaggio ultimo di questo film e alla sua valenza sociale, appare a tratti così fazioso e politicizzato, senz’altro qualunquista e banalmente blaterante, che il regista sente la cerchiobottista necessità di smussare qualche spigolatura tanto beceramente sinistroide (facendo affermare al protagonista, per esempio, che la sua non è una presa di posizione politica come per il resto della popolazione, quando conosciamo benissimo il suo godimento, visivamente espresso da smorfie di compiacimento, derivante dalla nascita del movimento sovversivo che mette a ferro e fuoco Gotham).

Il film presenta comunque note positive, come la meravigliosa colonna sonora. E risulterebbe persino piacevole se il regista ci confermasse che le due ore di visione rappresentano solo un sogno del protagonista Arthur, eventualità che giustificherebbe la sciatta sceneggiatura (ma è chiaro che la discriminante per decretare la bellezza o la vanità di un film non può fondarsi su quest’ultimo fattore) e che incrementerebbe l’idea di incondizionata e irrimediabile sconfitta degli ultimi della classe. Affascinate risulta altresì il tentativo di realizzare un film che si opponga, per messinscena e per impronta politica, ai tre Batman di Nolan, facendo da contraltare al classismo imperante in quest’ultima trilogia. Ma anche nel caso in cui ci si sforzi a vedere in quest’opera un buon film, sarebbe comunque indubbia l’impossibilità di definirlo un capolavoro. Eppure tutto il mondo lo ha fatto, la massa lo ha eletto film dell’anno, del secolo. E non esiste film più lontano da tale categoria artistica…! E del parer di massa, questa volta, hanno partecipato persino i critici togati e parecchi addetti al lavoro. Ma, a nostro giudizio, neppure quella che è considerata a furor di popolo la punta di diamante del film, vale a dire l’interpretazione del caro Gioacchino Fenice, è da considerarsi la migliore della sua carriera. Noi preferiamo per esempio la sua magnetica prova in The Master di Anderson o quella tesissima ne I padroni della notte di James Gray. Questa, a dirla tutta, è una delle peggiori. Non perché reciti male (questo sarebbe impossibile), ma una prova attoriale va analizzata nella sua interezza filmica. Non bastano le mimiche facciali, le danze – a detta di tutti – ipnotiche e misticheggianti, le risate in lingua originale. Non c’è nulla di straordinario nella presenza scenica di Phoenix questa volta, quella per lui è ordinaria amministrazione. E questo per un unico motivo: gli attori, soprattutto i grandi attori, sono delle prime donne che rivendicano un’autosufficienza artistica indiscutibile, ma non indiscussa. Perché in quanto galli in un pollaio di artigiani che sorreggono le riprese e la realizzazione di un film, credono di rivestirne il ruolo di colonna portante. In realtà, sono solo un anello, un singolo ingranaggio del sistema che potrebbe fare a meno di loro ma di cui essi non riuscirebbero a privarsi. E queste prime donne vanno indirizzate, accompagnate nel percorso attoriale, governate e ammansite. Altrimenti, lasciando libero sfogo alle loro smanie teatrali, diventano stucchevoli e il loro operato non è più funzionale alla causa cinematografica ma esclusivamente autoreferenziale. E non ci scalfiscono minimamente tutti quei discorsi, atti a legittimare la grandezza di un attore, sui sacrifici fatti in fase preliminare: dalla perdita di peso, all’apprendimento di gestualità e mimiche, allo studio del personaggio da interpretare e chiacchiericci vari. La valutazione estetica risiede nella e dipende puramente dalla fase performativa dell’attore. Non da quello che viene prima né da quello che segue. Solo il film può dirci del film (e dell’attore, in questo caso). In questa singolarissima circostanza è l’attore, viceversa, a dirigere il regista, a dettargli indebitamente i tempi, a sottometterlo. Esempio massimo di cinema minimalista (negli intenti) che risulta minimale (se non addirittura infimo, di fatto).

A tal proposito, inseriamo nella disquisizione un altro film, al centro del dibattito cinematografico degli ultimi tempi: C’era una volta a… Hollywood di Tarantino. Opera massacrata dal grande pubblico, dalla critica togata, da quella improvvisata e persino dagli stessi invasati “fanseggiatori” dello zio Quentin. Come può ben emergere dal preambolo, è (questo sì!) un gran film. Dalla pellicola, che offre maturi spunti di varia natura, soprattutto socio-politica, estrapoliamo innanzitutto ciò che lo avvicina, tematicamente ed esteticamente, al Giocher di cui sopra. Di Caprio nel film interpreta un “quasi divo” di Hollywood alle prese con una crisi artistica. Il film – aspetto sfuggito ai più – descrive, in maniera nemmeno tanto celata, il delicato passaggio da cinema classico a moderno (e, se vogliamo, postmoderno, di cui Tarantino è uno dei massimi esponenti). Nel caso specifico è presente una sequenza, all’incirca a metà film, in cui viene girata una scena che vede protagonista il nostro Di Caprio nelle vesti di un bifolco da classico western americano. Dopo parecchi tentativi di mostrare il proprio decaduto talento, vanificati dal frequente abuso di alcool, il nostro attore riesce finalmente a impressionare il regista nell’unico modo possibile, affidandosi, essendo incline alla smemoratezza dialogica e facendo di necessità virtù, alla trovata scenica del secolo: l’improvvisazione. Lo spettatore accorto sa che quel momento rappresenta, per il nostro protagonista, l’inizio di una nuova carriera, il suo ritorno alla ribalta, ma d’altro canto rivela una pericolosa metamorfosi dell’immagine dell’attore. Lo spartiacque rivoluzionario implica infatti una sopravvalutazione del ruolo dell’attore, che passa da comprimario (nell’organigramma filmico di ogni tempo) alla prima donna sopracitata, che si affranca persino dalla lettura e dal nobile lavoro di seri artigiani della parola. L’elevazione a sacro statuto di chi sta davanti alla macchina da presa comporta un atteggiamento lascivo nei confronti di ogni altro ambito che afferisca all’opera. Tutto sacrificato in nome del divo da réclame, davanti al quale persino il regista, oggigiorno, sembra prostrarsi. L’attante di tragica memoria diviene attore. Si sciacqua la bocca prima di parlare, si interessa di politica sbraitando contro il governo, ostenta le proprie doti, millanta di aver recitato sotto la neve in condizione febbrile e di aver perso decine e decine di chili da immolare sull’altare di onanistiche statuette dorate assimilabili alle divinità domestiche pagane (quei dannati Oscar). E il film? Chi parla più di cinema se persino gli addetti ai lavori danno adito a tali idiozie? E Tarantino ci dice proprio questo, che la tendenza al sempre maggiore realismo nel cinema di oggi coinvolge in modo malsano anche e soprattutto l’ambito attoriale, portando la critica a osannare un attore che improvvisa banalmente una scena piuttosto che focalizzare l’attenzione su professionisti che, partendo da una solida sceneggiatura, la ricreano o ricreano artisticamente il proprio personaggio, senza mai sostituirsi ad essa. E qual è per l’appunto il finale di carriera dell’ormai risorto Di Caprio, mostratoci genialmente nei titoli di coda da Tarantino? La pubblicità di un tabacco che egli stesso, accanito fumatore, disdegna terribilmente. Epilogo indegno, seppur nazional-popolare. È arte attoriale saper leggere la propria parte di sceneggiatura, saperla riprodurre mnemonicamente per poi, se necessario, solo se necessario, manipolarla senza renderla stucchevole. «Io resto sempre e comunque con Diderot e mai con Stanislavskij: non credete a quegli attori che parlano di transfert, di emozioni medianiche. È solo un mestiere e neanche dei più nobili, visto che si cerca di rendere vero il falso». A darci man forte sono le parole di Enrico Maria Salerno. Un grande attore che tuttavia, molto modestamente, riconosceva il talento artigianale ma non lo statuto artistico all’attore di ogni tempo. Quanto al nostro Phoenix, per chiudere il capitolo sull’interpretazione, possiamo dire a voce alta che è facile, fin troppo facile impersonare uno schizoide, che il film sia di Nolan o che la marca sia maggiormente autoriale e affrancata dall’ambito fumettistico. È pur sempre un cattivo, al massimo un buono che diventa tale; quindi, onestamente, fare incetta di premi vestendosi da folle pagliaccio, per di più avendo la pretesa di prendersi maledettamente sul serio, è una soddisfazione accessibile ai più e senz’altro mutila.

Dedicheremo il finale della nostra recensione all’aspetto politico dei due film. Come già accennato, Giocher offre una visione molto fanciullesca della società capitalista. Dipinta nel film, giustamente, come opprimente verso chi il capitale lo manovra, divenendone una consensuale pedina, ma ancor di più verso chi il capitale lo subisce senza esserne minimamente integrato nelle sue dinamiche. Tuttavia il film sembra seguire un’unica guida: il potere logora chi non ce l’ha, chi tenta il tutto per tutto per non rimanere inamovibilmente al proprio posto per tutta la vita, manifestando persino invidie e rancori puerili verso il sistema. Non crediamo sia sbagliato il contenuto del messaggio del film, quanto piuttosto la forma, la quale stravolge il tutto rivoltando il film come un calzino e, con esso, ogni buona intenzione. Come se fosse giustificata ogni azione anarchica perché alimentata da un malessere esistenziale, come se il malessere esistenziale fosse sufficiente per combattere il sistema. Servono le idee, quelle che il personaggio sciatto e monodimensionale del film di Philips non dimostra di avere.

Differentemente è trattata la questione politica da Tarantino, il quale rivisita la storia per appurare, questa volta in maniera riuscitissima rispetto ad altri suoi film, quanto stupido e fuorviante sia contingentare fenomeni sociali a claustrofobiche categorie politiche. Oggi quanto mai assistiamo ad una guerra ideologica fondata sullo spauracchio dei fasci littori, dei manganelli, dell’olio di ricino. Ma paventare un ricorso storico del genere, affibbiando certi epiteti ormai anacronistici a cialtroni per mano di altri cialtroni di egual livello (se non superiore) significa non saper leggere e interpretare la realtà in cui viviamo. Tarantino descrive una società in cui, già a fine anni ‘60, le posizioni si erano ribaltate: i reduci destrorsi e reazionari, presi di mira dal branco di scalmanati e invasati hippies, ammaestrati dal diabolico Manson, rappresentano in realtà, nel finale, la Resistenza. Gli Hippies stessi invece, emblema del progressismo incondizionato e sfrenato, propugnatori della sostituzione dell’ordine metafisico ed etico con uno da loro proposto, morale e sui generis, risultano essere l’incarnazione del totalitarismo culturale, del dispotismo ideologico di tendenza coercitiva e liberticida (quando non addirittura mortifera), che solo i cosiddetti fascisti – vivaddio! – riescono a debellare. Un grande e maturo monito del nostro Quentin per scongiurare ogni approssimativa e reazionaria (questa sì) tendenza a liquidare qualsivoglia considerazione di natura conservatrice e antiprogressista come fascista. Insomma, il nostro Quentin raccomanda cautela nel giudizio (la stessa cui dovremmo aggrapparci quando definiamo “capolavoro” un filmetto, manco fosse Orizzonti di gloria). Naturalmente, nemmeno i destrorsi sono gli eroi del film, ma di sicuro sono i buoni che si oppongono al male maggiore, rimanendo comunque atterrati dal macigno della violenza repressa, soffocata per anni, cui dare libero sfogo quando se ne presenti il momento. Alla maniera di Travis, per intenderci (protagonista del capolavoro Taxi driver, film molto più vicino, a tal proposito, a C’era una volta a… Hollywood che a Giocher, cui è stato invece indegnamente accostato). I due amici del film di Tarantino sono, ancora una volta, dei bastardi senza gloria, che non agiscono per spirito di giustizia, né per incarnare la quintessenza di una qualche forma di eroismo, socialmente pericoloso e infantilmente autoreferenziale (alla Giocher insomma), ma per espiare, quasi fosse un rituale catartico, le proprie insofferenze sociali. Per ritrovarsi e ritornare al proprio posto nella piramide sociale, sconfitti seppur carnefici; come prima, più di prima.

Gabriele Santoro

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