LA DIMORA DEL GENERE

Si dia al cinema quel che è del cinema. Senza fronzoli o sperequazioni varie. Perché, tacciata com’è di essere la forma di arte più infima che ci sia (e ammesso che sia arte, onestamente), per lo meno le si consegni ciò che più rientra nel suo diretto dominio. Migliaia di volte sentiamo dire (e non si necessita di attestati di un qualche centro sperimentale di cinematografia per capirlo) che certi film vanno visti al cinema, solo lì, per apprezzarne la totale integrità formale. Niente di più vero. Poi c’è altro, c’è del cinema che, dall’alto della sua potenza contenutistica ma anche estetica, riesce ad impressionare anche su un 12 pollici. Ma questa è un’altra storia. La nostra disquisizione di oggi verte su quel calderone che approssimativamente ma coerentemente coi contenuti chiamiamo spesso “cinema di genere”. È chiaro dunque che più che in ogni altro caso proprio il genere risulta congruente con il ragionamento sopra esposto. E se vi sono registi che partendo dal genere se ne discostano sempre più rendendolo funzionale ad una suprema autorialità (Cronenberg, Carpenter, Scorsese), esistono pure addetti ai lavori che un certo leitmotiv della propria cinematografia lo mantengono sempre all’interno del genere stesso di appartenenza. Sperimentando sfumature diverse magari, ma senza mai davvero sconfinare in campi altri. È il caso del regista del giorno, punta di diamante del cinema di genere italiano nel mondo. Riconoscente verso i mostri sacri del cinema passato e per questo a sua volta riconosciuto come mostro sacro dai posteri. Stiamo parlando di Sergio Leone. Di lui si è detto tanto, troppo forse. Proviamo a dire qualcosa, senza troppe pretese, pure noi.

Ogni generazione di cinefili ha la sua condanna, una pena da scontare. Che sia quella di vivere nell’epoca delle “americanate” più americane del solito, pregne di colori sgargianti e sovraesposti ed effetti speciali zoticoni o che sia quello di non aver potuto vedere al cinema i film di genere del passato, spolpati e rispolpati tuttavia in videocassetta. Ma, per chi non se ne fosse accorto, viviamo nell’epoca della semplificazione estrema, dell’annichilimento dei vincoli (necessari!) temporali e del rilancio di qualche moda vintage che sa più di accattivante e ruffiano servilismo nei confronti delle masse che di spontaneo ritorno ad un passato genuino. Allora ecco che il supporto digitale si erge incautamente a garante dei desideri della nostra generazione, catapultandoci in una dimensione passata e forse già scaduta, che sarebbe piuttosto opportuno lasciare riposare in pace al fine di non dissacrarla. Detto questo, però, alla notizia che vi fosse nuovamente al cinema un cult come Per qualche dollaro in più non ho saputo resistere e sono corso a vederlo. Se non fosse stato riproposto, sia chiaro, avrei continuato a mangiare serenamente pane e cipolla come sempre e c’avrei dormito su lo stesso, magari invidiando mio padre che lo aveva visto al cinema, ma nulla di più. Ma il cinema è cinema! E sentire quella colonna sonora fischiettata, arguta, rockeggiante e beffarda in una sala cinematografica ha tutto un altro gusto. Tutto sembra molto più coinvolgente, avvolgente, persino credibile. Il cinema assume insomma dei tratti onirici, nel senso che al suo interno decade ogni logica precostituita e sembrano vigere regole altrimenti aliene. In questo contesto si inserisce naturalmente la Trilogia del Dollaro. Costituita da film innovativi nello stile, nella messinscena, nel racconto. E naturalmente nell’impostazione di base dello stesso genere di appartenenza, il Western. Ma film pure, per certi versi, assurdi, terribilmente sopra le righe se non addirittura grotteschi. Film che forse peserebbero ad un amante del realismo spietato nel cinema, perché spesso caricati, prolissi sino all’esasperazione, inverosimili. È vero, gli abiti, il trucco, la scenografia e le stesse inquadrature rimandano ad un realismo estetico opportunamente esibito, che attenua le apparenti spigolature della sceneggiatura. Ma viene comunque difficile credere che vi siano persone al mondo, soprattutto nel “lontano” West, che per spappolarsi le budella aspettino la fine della musica di un orologio da taschino. Che spendano la maggior parte delle giornate a dimostrare quanto bene sappiano sparare puntando i cappelli altrui. Che indispettiscano un fuorilegge accendendo sulla sua gobba un fiammifero. Che abbiano sempre, ma proprio sempre pronta una battuta perfettamente incastrata a mo’ di sentenza biblica. È chiaro che il genere non possa prescindere dalla visione sorda, “buia”, insudiciata ma discreta in una sala cinematografica. Visione altrimenti imbarazzante, persino superflua. Ma questo vale per il genere in senso stretto, naturalmente. Quando esso infatti sconfina, come anticipato, in campi limitrofi e si sublima al fine di veicolare un messaggio diverso, magari socialmente impegnato, il cinema tende a perdere la sua portata estetica ed estetizzante e diviene semplice ma nobilissimo medium. Ma vi è un film di Leone che riesce a conciliare entrambe le concezioni di cinema. Doppio indizio: si parla di un treno da costruire e c’è una proverbialmente perfetta Claudia Cardinale. Perché C’era una volta il West è il capolavoro assoluto di Leone, stando al criterio sopra esposto. Estetica ed etica, per così dire, perfettamente miscelati a creare un ritratto commovente, dunque sublime (non solo bello!) di un Occidente proiettato al progresso ma dimentico di un passato occulto e occultato, di sangue, infamia e oppressioni. Anche qui la sala cinematografica riesce a consegnarci un film che la tv di casa renderebbe forse sottotono ai più, ma nello stesso tempo Leone si serve di una messinscena perfetta e “di genere” per realizzare questa volta il film forse più politico (insieme a Giù la testa), per certi versi agli antipodi rispetto alla Trilogia precedente. Infatti, nonostante lo stile, i movimenti di camera e gli espedienti narrativi siano simili a quelli dei film con Eastwood (dai voluti cali di tono per poi improvvisamente far schizzare il film ai frequenti flashback dei protagonisti che svelano il loro misterioso passato), le musiche, le atmosfere e i personaggi sono molto più spossati, sgonfi, meno posticci, sofferenti e malinconici quanto mai. Il genere western comincia ufficialmente ad acquisire un senso. Solamente adesso.

Sospensione del giudizio. Epochè, la chiamavano i Greci. Sottoporre a rianalisi critica i grandi classici o in generale il sapere già acquisito e apparentemente inamovibile ed eventualmente rivalutarlo è dovere intellettuale di tutti. Il rischio per chi non lo fa è quello di assimilare passivamente ma inconsapevolmente un tipo di cultura. In campo cinematografico ciò è quanto mai vero. Perché se Leone è un genio, un talento indiscusso, bisogna almeno sapere perché lo sia, ammesso che lo sia. Lo è, senza dubbio. Ma, come detto, il vero Leone, libero da vincoli di mercato e botteghino, libero dalla schiavitù del compiacimento delle masse e dalle prerogative insuperabili che il genere a volte impone, è quello post – Trilogia. Un mio amico, alla notizia del restauro digitale dei tre film, saggiamente mi disse su questi ultimi: “Niente di più americano”. Già, perché, a parte qualche personaggio (Tuco o il terribile Indio), vi sono poche impronte, per così dire, “progressiste” in questi film. Anzi, come qualsiasi altro discreto western, almeno relativamente al soggetto, notiamo carenza di contenuti. Viene senza dubbio rappresentato un mondo di violenza e compiacenza della stessa, che comprende che per raggirare l’ipocrisia deve per lo meno fare di necessità virtù e rendersi avvezzi al sangue anche per lavoro, attraverso i cacciatori di taglie (l’America fondata sugli stermini operati dai cosiddetti pionieri ha portato già a termine il suo mandato e c’ha pure preso gusto). Ma niente di più. A livello contenutistico questa già di per sé sfumata critica ad una neonata nazione diviene ancora più labile allorquando entra in gioco una straniante e ambigua ironia tra le gesta di Eastwood, Volonté, Wallac, Van Cleef, Rabal e compagni. Straniante perché rende quasi legittimi i “mezzogiorni di fuoco”, tutti i superflui spari e le stragi di uomini fatti fuori come fossero noccioline, creando una sorta di disorientante ammiccamento nei confronti del pubblico verso tutto quel sangue sparso gratuitamente. Il tutto portando un’ironia di fondo facilmente fraintendibile e una musica non di certo struggente proprio dalla parte di pistoleri da strapazzo. Potremmo azzardarci a dire insomma che Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo (anche se in minor parte) sono quasi interamente “puro genere”, con una netta tendenza a mostrare disumanità tra i protagonisti, dipingendoli ciononostante in modo positivo. Ma allora questa trilogia non serve a nulla? Assolutamente no, altrimenti non si sarebbe definita, sin dall’inizio, cult. La sua è una schiacciante portata estetica. La valenza cinematografica di questi tre western sta infatti nella totale rivoluzione tecnica e stilistica del genere. Ai vecchi visi, imbellettati, puliti, sempre tirati a lucido e poco spontanei di reazionari alla John Wayne fanno da contraltari quelli naif, malconci, sudaticci, luridi e orripilanti della nuova generazione western (è un po’ lo stesso lavoro intrapreso da Pasolini quando realizzò Il vangelo secondo Matteo, stando giustamente ai canoni di bellezza di duemila anni fa). Se la sceneggiatura sembra apparentemente, come detto, un po’ troppo su di giri, la regia è quanto meno perfetta. Senza minimamente strafare, Leone sfoggia virtuosismi di camera e chicche di montaggio che elevano il genere a mestiere da vero e talentuoso artigiano (e artista) del cinema. A doverosi momenti di stallo fanno da contraltare sequenze di bellezza registica mai barocca che rasenta il delirio estatico (tra tutte quella del duello finale tra Volonté e Van Cleef in Per qualche dollaro in più, con un montaggio frenetico e riprese di dettagli al fulmicotone, presenti anche nel triello finale de Il buono, il brutto e il cattivo). L’immenso genio di Leone si erge anche quando, in fin dei conti, inserisce episodi e situazioni all’interno della sceneggiatura che non rendano affatto sgradevole la pellicola, di per sé già pericolante in potenza. Un esempio tra tanti quello della foga che Van Cleef mostra nel voler uccidere a tutti i costi Volonté, reo quest’ultimo di aver ucciso sua sorella anni prima. La vendetta diventa l’unico e, paradossalmente, indiscusso movente dell’uccisione dell’Indio, personaggio sì sgradevole, ma combattuto e scisso, che non merita, al di là del delitto di cui si era macchiato, trattamenti peggiori rispetto agli altri personaggi del film, tra cui lo stesso Eastwood, il più ingordo di denaro. Il West e l’America tutta della trilogia (come il West per antonomasia in realtà) è un eterno “luogo del delitto”, in cui il Male diabolicamente inteso perpetra la sua immagine dalle origini sino ai nostri giorni, i giorni di un’ennesima e quanto mai tragica e stucchevole guerra dichiarata all’Iraq. E tra le righe Leone sembra voler far intendere come l’Eastwood di Per qualche dollaro in più sia il prototipo dell’Americano medio che sarà, pronto a elargire generosamente proiettili per appena trenta denari. Odioso e presuntuoso quanto mai, se si assiste alle sue vicissitudini da un televisore di casa, senza poter apprezzare in toto il piano tecnico del film, si rischia di farsi piacere la sua etica comportamentale, ridendo magari ad una sua battuta. C’è un Leone dunque critico e solenne (C’era una volta il West) e uno critico ma immerso nel genere e in una compiacente ironia.

E naturalmente questi due versanti hanno costituito nel tempo due filoni completamente diversi del genere. L’Eastwood regista, per esempio, ha optato da sempre per un western molto più autoriale e discreto, mai sopra le righe, introspettivo e realista. Da Il cavaliere pallido fino a Gli spietati ha sempre messo in scena personaggi combattuti e intrisi di una certa po-etica, non di certo epici e magniloquenti come il capolavoro di Leone, ma non per questo ad esso inferiori. Proprio Gli spietati rappresenta, probabilmente, il più struggente e poetico western della storia, ed è un peccato che la nostra generazione non lo conosca e abbia invece apprezzato Django di Tarantino. A proposito, quest’ultimo rappresenta invece la “caricatura pop” (dalla potenza visiva indiscutibile ma un tantino troppo barocca) del filone leoniano immerso totalmente nel genere. Non è un caso che abbondino citazioni stilistiche, di sceneggiatura e sonore, ma risulta essere un western che sconfina pericolosamente nel post-post-moderno (sia chiaro, post-moderni erano, in fin dei conti, già i western leoniani), con musiche a volte improponibili e anacronistiche. Ad un finale pirotecnico che sembra promuovere Django a unico eroe del film (anziché relegarlo, insieme al resto dei personaggi, ad una massa uniforme di antieroi, assassini e fuorilegge) si oppone un finale ne Gli spietati in cui la vendetta sembra condannare il protagonista alla vita, nuovamente monotona, in un’ancora più spiazzante solitudine. E lo scatto che distingue un western piacevole come quello di Tarantino dal capolavoro di Eastwood è proprio la totale assenza della componente grottesca del secondo rispetto al primo. L’ironia ne Gli spietati (come del resto in C’era una volta il West) è solo interna ai personaggi, qualora la si trovi, non è scritturata o sceneggiata, non è espressa dai toni colloquiali e non pesa affatto. L’ironia in Django (come del resto quella di Per qualche dollaro in più, per esempio) appartiene invece al genere e rende tutta la pellicola molto grottesca e fumettistica (il sangue “pulp” e sovraesposto e i voli esorbitanti dei personaggi bersagliati da Django ne sono una conferma). Puro genere in Tarantino e omaggio ad esso contro autorialità nel genere in Eastwood. Stesso padre, Leone. Figli diversi.

Ciò che si consiglia in questa sede è di vedere tutti i film di genere (ma proprio tutti, da Tarantino a quella latrina di Bay) in una sala cinematografica, il suo habitat naturale insomma. Perché snobbare il cinema inteso come luogo deputato alla visione significa mandare al diavolo la tradizione prediletta dai nostri padri, e dai nostri nonni prima di loro. E significa, soprattutto, vanificare ogni tentativo di legittimazione artistica del cinema messo in atto da maestri come Sergio Leone. E Agira ha ancora una saletta. Notizia non così scontata, vista la chiusura di migliaia di cinema negli ultimi anni. Ce l’ha, in pieno centro storico. Così, giusto per ricordarlo.

Gabriele Santoro

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