SOTTO UNA BUONA STELLA

 

SOTTO UNA BUONA STELLA

 

Cosa succederebbe se un uomo d’affari (Carlo Verdone), divorziato, con una bella casa, una vita agiata, una ragazza mozzafiato, si trovasse improvvisamente costretto a fare il Mammo casalingo con due figli ventenni ed una nipotina a carico? SOTTO UNA BUONA STELLA racconta la storia di un padre (Carlo Verdone, nel ruolo di Federico Picchioni) che si e’separato dalla moglie quando i figli erano ancora piccoli. Nel corso degli anni, grazie ad una brillante carriera in una holding finanziaria, non ha fatto mai mancare nulla alla famiglia ma la sua totale assenza, affettiva e fisica, specialmente verso i figli, e’ stata imperdonabile. L’improvvisa morte della moglie ed uno scandalo finanziario che lo riduce quasi in rovina, cambieranno drasticamente la vita di Federico Picchioni. Non potendo più permettersi di pagare l’affitto ai figli, e’ costretto a farli andare a vivere a casa sua.

Fonte: Comingsoon.it

 

 

 

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SI SCRIVE DIGITALE, SI LEGGE CAPITALE

PellicolaAnacronismo. Concetto che non si addice minimamente al paffuto Karl Marx e al suo Capitale. Ciò che conferisce modernità e, paradossalmente, persino un alone di post-modernismo al suo pensiero è la sua efficacia in potenza. Vale a dire il fatto che quanto da Marx annunciato non si sia ancora del tutto verificato e che comprendiamo la veridicità della sua analisi sociale solo adesso, sempre più. E l’elemento che più ci sorprende è che la realtà supera di gran lunga la mera teoria del Capitale. La tanto strumentalizzata e chiacchierata alienazione di un individuo dal frutto del suo stesso lavoro si è insinuata in ogni ambito lavorativo, persino in quegli universi tanto lontani (solo apparentemente) da quello dei proletari, protagonisti della trattazione di Marx. Qui si parla insomma di una forma assoluta di capitalismo (a livello concettuale, non solo economico) attecchito indissolubilmente ovunque. Ma ciò che in questa sede si vuol sindacare è la degenerazione che questo sistema ha causato nel luogo che più di ogni altro ci sta a cuore, la nostra sala cinematografica. E come la nostra, una miriade in giro per il mondo. La famosa alienazione di cui sopra ha coinvolto infatti persino le professioni di gestore cinematografico e in maniera specifica, allorquando le due figure siano separate, quella di operatore. Non è che l’ultimo e magari insignificante esempio di smantellamento di vecchie tradizioni e realtà “artigianali”. Ma ad una lettura più approfondita si coglie la maggiore rilevanza di questo discorso e ciò è possibile facendo una doverosa e necessaria premessa. Il cinema, inteso come universo completo ma frammentato, che parte dalla galassia scrittura, per passare da quella della produzione, della realizzazione e che finisce con quelle della distribuzione e della fruizione, presenta come prevalente peculiarità una certa scissione di fondo. E l’avvento del digitale sembra annullare definitivamente anche quel piccolo barlume di unità che il formato analogico della pellicola rappresenta(va): condizione preliminare e necessaria prima della fruizione era difatti il montaggio ultimo in cabina. Da ciò si deduce chiaramente il fondamentale ruolo giocato dall’operatore, il quale, a detta del mio professore di Storia e critica del cinema, De Filippo, “era il reale montatore (in secondo grado) nonché rifinitore della pellicola, con libertà decisionale tale da poter dirigere ulteriori e definitivi tagli”. E così era realmente. Un ruolo attivo, seppur in contumacia, nell’estenuante circuito senza fine delle produzioni cinematografiche. Un ruolo attivo, certo, anche se di brigantaggio. Ma è ciò che ha permesso ai piccolo gestore / Sisifo di trascinare questo enorme masso che si chiama cinema su e giù per quella montagna avversa che si chiama mercato, facendogli credere, a buon diritto, di essere parte integrante del sistema, di contare qualcosa insomma. Che sia chiaro: il mio non è un manifesto di partito. E per questo reputo Marx un antropologo e un sociologo. Non si tratta dunque di parteggiare per un sistema o un altro o issare una bandiera (quanto mai inutile, visto che stiamo da sempre dentro ad un certo sistema economico e ne siamo tutti coinvolti), ma di avere l’onestà intellettuale di non negare l’evidenza e di comprendere che ciò a cui assistiamo è involuzione. Ma è anche onesto ammettere come il suddetto mercato sia stato sì croce, ma anche delizia del sistema cinema, lasciando tuttavia adesso ai gestori cinematografici soltanto ossa da spolpare. Era lo stesso mondo balordo anche allora insomma, ma le cose andavano bene e il pubblico rispondeva. Ed era da aspettarselo dunque. Un passaggio “necessario” quello al digitale  perché le case di produzione e distribuzione erano al verde (peccato che lo fossero pure i cinema!). Le dinamiche imprenditoriali sono sempre finalizzate a ottenere il massimo risultato (pecuniario) con il minimo sforzo (anch’esso pecuniario). C’è poco da sorprendersi, come se non avessimo mai vissuto in un sistema capitalistico! E proprio per questo c’è tanta amarezza, dettata dal fatto che la massima possibilità di profitto (visti i comunque alti costi che la pellicola comporta) ha cancellato da un giorno all’altro l’importanza di un supporto che ne ha fatto la storia per poco più di un secolo. Non si sta parlando insomma di un formato o del sonoro, ma proprio del supporto pellicola. E al di là di ogni tipo di discorso di carattere nostalgico che potremmo pure fare, urge sottolineare il carattere dunque sociale dell’avvento del digitale. Adesso il gestore / operatore è realmente alienato dal frutto della fruizione. A breve non esisterà più la cabina, che è stata fino ad ora la stanza buia dello sviluppo fotografico, il laboratorio di analisi medica, l’officina di un meccanico. E la pressa (strumento per montare manualmente la pellicola) è stata la pialla del falegname, poiché ha avvicinato l’operatore alla figura di un vero artigiano. Il digitale “spersonalizza” il mestiere, cancella la figura dell’operatore e riduce quella del piccolo gestore a semplice macchietta. Un peccato insomma per quei pazzi schizzoidi che iniziano adesso questa attività, perché senza storia recente. Magari ne comincia un’altra, ma non sarà più lo stesso. D’ora in poi il gestore eseguirà ordini dall’alto, come un boia infliggerà il colpo di grazia allo spettatore, che, ignaro di ogni colossale cambiamento avvenuto sopra la sua testa, se ne starà a sgranocchiare pop corn come sempre.

Il mio ringraziamento va naturalmente a chi questo mondo di lontane e sfocate malinconie cinematografiche non lo ha ancora abbandonato o dimenticato. Va a chi in questo mondo ancora ci lavora, tra tradizione, esperienza e professionalità, con la convinzione che un imminente tsunami di inarrestabile progresso sta per travolgerlo, senza sapere come e se ne uscirà e se potrà continuare o meno l’attività svolta da una vita. Un grazie a chi l’arte del montaggio artigianale e in generale il magnifico universo del supporto pellicola li illustra con amore nelle università, consci del fatto che la “fiumara del progresso”, per dirla alla Verga, fa pur parte della storia e non si può arrestare con petizioni o democratici sollevamenti, ma che una scossa del genere può essere ammorbidita da una campagna di informazione, per rendere doveroso omaggio ad una parte di storia. E un ringraziamento speciale a mio padre e mio fratello, che questa realtà l’hanno ben conosciuta e riconsegnata con dedizione al nostro paese, con la speranza che qualcuno si renda conto che anche qui, ad Agira, la storia, anche se a rilento, prosegue come altrove e che una parte del passato cinematografico, forse anche più genuino, è tuttora presente in quella cabina in via Cairoli.

Gabriele Santoro

 

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IL CAPITALE UMANO

 

 

IL CAPITALE UMANO

 

I progetti faciloni di ascesa sociale di un immobiliarista, il sogno di una vita diversa di una donna ricca e infelice, il desiderio di un amore vero di una ragazza oppressa dalle ambizioni del padre. E poi un misterioso incidente, in una notte gelida alla vigilia delle feste di Natale, a complicare le cose e a infittire la trama corale di un film dall’umorismo nero che si compone come un mosaico. Paolo Virzì stavolta racconta splendore e miseria di una provincia del Nord Italia, per offrirci un affresco acuto e beffardo di questo nostro tempo.

Fonte: Comingsoon.it

 

 

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THE WOLF OF WALL STREET

 

 

THE WOLF OF WALL STREET

 

The Wolf of Wall Street vede protagonista Jordan Belfort, un broker di Long Island, condannato a 20 mesi di carcere dopo aver rifiutato di collaborare alle indagini su di un massiccio caso di frode atto a svelare la diffusa corruzione vigente negli anni ’90 a Wall Street e nel mondo bancario americano.

Fonte: Comingsoon.it

 

 

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SAPORE DI TE

 

 

Sapore di te

 

Fra le commedie corali più cult della prima metà degli anni 80 c’è sicuramente Sapore di mare dei fratelli Vanzina, che incrociavano disavventure e love story in una Forte dei Marmi allegra e vip. Trent’anni dopo, i figli di Steno ritornano nel luogo del misfatto e girano Sapore di te, un film tra il nostalgico e il frizzante accompagnato da un’accattivante colonna sonora. Attraverso il racconto di due estati (quelle del 1983 e del 1984) il film illustra uno spaccato della società italiana di allora. I protagonisti di questa storia sono tanti. Ci sono Luca e Chicco, due compagni d’università, che si innamorano della stessa ragazza. C’è Anna, che sta per laurearsi e che incontra Armando, uno Steve McQueen di provincia che gli rapisce il cuore. C’è la famiglia Proietti, con Alberto tifoso romanista, sua moglie Elena e la figlia diciassettenne Rossella, oggetto delle attenzioni di Luca e Chicco. C’è il Ministro De Marco, un simpatico socialista napoletano travolto dalla passione per la sentimentale e ingenua Daniela, una giovane soubrette di “Drive In”. Intorno a loro un mosaico di caratteri tipici di quell’epoca: il bagnino Renato, che seduce le giovani straniere, la compagnia della spiaggia dei ragazzi sempre pronti a scherzi goliardici e a scappatelle sentimentali, i genitori di Luca, due borghesi milanesi che rimpiangono gli anni ’60…

Fonte: Comingsoon.it

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