LA RIVOLTA DI ABELE (su “Solo Dio perdona” di Refn)

A ritroso. Quasi dissacrando l’idea stessa di cinema. Ma almeno con molta poca ipocrisia conoscitiva. Perché è chiaro che in un’epoca di inflazione di offerta artistica, estetica, informativa, trovare qualcosa di reale valore è davvero arduo. Soprattutto per via dell’ammasso informe di monnezza che ci troviamo davanti. Ma a volte sembra ergersi, sul monte solitario chiamato “cinema d’autore”, qualche opera insolita per modalità propositiva, unica per realizzazione. E magari non si tratta che dell’ultima fatica di un regista di vero talento, da sviscerare, sventrare, prima di passare alle sue pellicole precedenti, ricostruendo un’intera poetica, persino a ritroso. Non lo si conosce di certo adesso, Refn, il regista di oggi. Che è riuscito a scuotere (se ancora ve ne fosse possibilità, in quest’epoca di surplus commerciale) chi non aspetta altro che essere scosso, stufo di assistere al Teatrino dei Pupi che il cinema è divenuto. Ma il suo film precedente, Drive, aveva lasciato l’amaro in bocca. Forse perché sconosciuto prima di allora (almeno a noi), il povero Refn. Invece Solo Dio perdona, la sua ultima pellicola, è riduttivo definirlo capolavoro. Lasciamo una volta per tutte queste accademiche categorie della critica minimalista a chi non abbia parole da spendere. Perché questo film ne merita, parecchie.

Trama: Bangkok; un giustiziere della notte, ex poliziotto, fa uccidere uno spacciatore Americano che aveva scannato una prostituta. La madre e il fratello dell’Americano provano a vendicarne l’esecuzione, ma non faranno che alimentare un vortice infinito di violenza. Solo Dio perdona è un film di certo crudo. Non tanto per le comunque reiterate sequenze sanguinarie, al limite del realismo scenico. Quanto più per la capacità di condurci alle visioni ematiche orripilanti provocando lo spettatore già da prima. Snervandolo sino all’insofferente esasperazione per poi accontentarlo visivamente con ciò che si ostina a ritenere bruto, eccessivo, violento. Film insomma provocatorio e nel contempo lassista, irritante ma infine oftalmicamente tonificante. Ecco che allora a piani sequenza rallentati ed apparentemente troppo prolissi fanno da contraltare stupefacenti (almeno nella realizzazione e nei trucchi e negli espedienti cinematografici) immagini di carni, ossa, orbite cavate, bruciature. Lo spettatore è prima seviziato e poi lasciato libero, proprio sul filo di un rasoio. Ed è disarmante come la tortura visiva non corrisponda a quella narrativa, anzi. Lo spettatore è sollevato dinnanzi al sangue, quasi come fosse abituale oggetto di fruizione; indispettito di fronte ad ogni altra inquadratura. È la testimonianza di un paradosso estetico, di un naif che diviene inevitabilmente di buon gusto. Perché girato bene, per carità. Ma non solo per questo. Il dialogismo è pressoché assente, ma sono i visi a parlare. In ottemperanza ad una messa in scena che ha molto di leoniano (come anche il titolo del film lo è, diretto, senza fronzoli o intellettualismi vari), Refn riesce a far conversare semplici sguardi, combattere tra loro ghigni e musi lunghi. È la sceneggiatura dell’estetica, nella sua forma probabilmente più alta, tra carrelli ostentati sempre più (sulle facce solo in apparenza smorte) e primi piani agghiaccianti. Un’estetica, inoltre, immersa totalmente nel genere. E che genere! Ed è questo, difatti, lo scarto con l’ultimo Sorrentino, per esempio. Impegnato, quest’ultimo, a immolare la totale fase estetica del suo cinema agli altari di un’autorialità che sa molto di pedanteria, futile decoro intellettuale. Refn strumentalizza invece la sua abilissima camera per un secondo fine: mostrare il marcio di tutto l’animo umano e le conseguenze dello stesso. Con uno stile ora noir, ora orrorifico. Per intenderci: il cinema di Refn, ma in particolare Solo Dio perdona, è plasmato sull’ultimo Cronenberg (cosiddetto “noir”) ma con una regia più “pop” (alla Coen, con un pronunciato, come detto, uso del carrello e del rallenty) e una componente onirico-straniante che guarda a Lynch come modello. Certo, abbiamo nominato il non plus ultra, ma non è una semplice smania filologica, quanto più un’inevitabile ed evidente nota di comparazione. La messa in scena è molto accattivante, lontana anni luce dalle inquadrature volutamente glaciali e poco coinvolgenti e commerciali del maestro Cronenberg, ma alcuni espedienti visivi non possono che rimandare a lui. O almeno al Cronenberg ultimo, quello degli inserti macabri mantenuti nel più totale noir e di una fotografia plastica, quasi tirata a lucido (alla Suschitzky insomma, storico collaboratore del maestro canadese), che si serve di primi piani grandangolari per disorientare l’occhio dello spettatore. Combinare insomma tre ingredienti (i maggiori registi viventi, probabilmente) che apparentemente potrebbero apparire indigesti non è cosa da poco. Refn ci ha provato e, a nostro avviso, c’è riuscito. Realizzando un film massimalista, magniloquente, nonostante si parli una volta ogni venti minuti. Una coscienza del mezzo cinematografico che potremmo definire artigianale. Che fa del regista un mestierante a tutti gli effetti, perché capace di catturare e ubriacare, all’occorrenza, con ciò che più sa fare bene: filmare. Il tutto orchestrato da una colonna sonora ora quasi tribale, ora elettronica (che rappresenta lo stridore di differenti culture che entrano in rotta di collisione). Sia chiaro: chi si aspetta gratuiti “mezzogiorni di fuoco”, può pure evitare di vederlo. Perché il film non è per niente vicino all’ultimo Tarantino, per esempio, che con Django sembra aver accelerato così tanto da andare vistosamente fuori giri. Niente fumettistiche e cartonate sparatorie al limite della repellenza, niente irrisorie fontane di sangue. Refn sembra piuttosto prenderlo sul serio, il sangue. Perché trattato con intensa drammaticità. Perché mostrato sino alla fine.

Funzionalità! Questa è la parola d’ordine, nel cinema. Funzionale deve essere la visione di un film. La saletta dove si fruisce. Il genere adoperato. Ma a cosa? Funzionale innanzi tutto ad un impegno, che sia culturale, intellettuale, sociale, anche solo antropologico. E il fallimento del Parnassianesimo, corrente poetica ottocentesca propugnatrice della mancanza di utilità nell’arte, risiede proprio in questo ambito. L’arte deve essere atta ad una visione della società da veicolare. Anche pure ideologica, da confutare o approvare. Ma un film deve sempre prendere una netta posizione, consegnando più domande che risposte, magari. Ma mai rimanendo nel salvifico ma aberrante involucro dell’ignavia. E questo film di personalità ne ha da vendere. Il messaggio consegnato allo spettatore, nel finale, è quanto più di straziante ma attuale vi possa essere: giù le mani dalle terre altrui! Con ciò stiamo ad indicare ogni forma di colonialismo, sia esso modaiolo, culturale, propriamente territoriale. E Refn ci sussurra questo imperativo approfittando della terribile e spietata figura del protagonista assoluto del film, che risulta essere, diversamente da quanto si possa pensare a primo acchito, proprio l’”angelo della vendetta”, l’ex poliziotto, Chang. Lo si sente parlare poco, quasi mai, ma agire tanto, anche troppo per un debole di cuore. Sotto la grandezza di una fissità espressiva senza precedenti nella storia del cinema, si cela una pluralità di espressioni etiche. Sotto la crudeltà (o sarebbe meglio definirla crudezza) si cela il calcolo razionale, il genio, “limpido, cristallino, puro”, direbbe il colonnello Kurtz di Apocalypse now. Ed è lampante il parallelismo con quest’ultimo capolavoro di Coppola, perché se lì era il popolo vietnamita a rappresentare una sistematica ed organizzata (al limite del possibile!) resistenza all’esercito straniero, in Solo Dio perdona non si parla di guerre, di embarghi o di qualunque altra infamia americana in tema di politica estera. Si parla solamente di preventivo e giustamente pregiudiziale ostruzionismo nei confronti di culture, consuetudini e indebite ingerenze che tentano di corrompere l’ordine costituito. E il film risulta essere una reazione alla politica americana da sempre anche solo economicamente e diplomaticamente interventista in Thailandia (seppur sia stata storicamente pacifica). E a compromettere l’equilibrio sociale, a determinare il kaos, è proprio uno straniero, ingordo di sesso e denaro, stupratore e spacciatore. Lì scatta la vendetta-giustizia (binomio solo apparentemente ossimorico, vista le labilità del confine tra i due termini in un paese in cui vige ancora la pena di morte). E scatta con una dedizione, una lucida freddezza e un’apparente mancanza di coinvolgimento emotivo tali da raggiungere l’obiettivo tanto agognato: ristabilire il kosmos, l’ordine. Ed è la stessa storia a legittimare sempre più l’inviolabilità del Sud-Est asiatico (e dell’Oriente tutto) a fronte di un modello di vita non omologato alle tendenze globalizzate, appiattite, occidentali, troppo occidentali. Un film seducente, mistico, mai cromaticamente variegato se non nel buio più totale. Un film rituale, in cui rituali sono gli omicidi di Chang, corroborati da gestualità e mimiche teatrali, solenni. E proprio come il maestro Cronenberg ne La promessa dell’assassino, il delitto efferato pertiene ad una legislazione altra, che un comune mortale non può comprendere, giudicare, biasimare. Perché motivato, questa volta. Perché quasi giustificato.

Capitolo a parte merita il personaggio interpretato da Ryan Gosling, che veste i panni del fratello dell’Americano morto. Premesso che Gosling è uno dei pochi eredi di quella classe di attori hollywoodiani che, come si suol dire, hanno un viso che sfonda lo schermo, la sua faccia non può che stare dove sta in questo film. Drammaticamente vuoto, quasi sempre. Provato e tragicamente espressivo, all’occorrenza. Un ruolo segnato dall’azione, ancor più di quello di Chang. Perché essa smentisce e dissacra la sua aria da duro e tenebroso. Perché essa non riesce a travalicare le continue ingiurie della madre. Un personaggio, quello di Gosling, continuamente stretto nella morsa dell’inerzia, dell’accidia. O della violenza gratuita, nella scena per esempio in cui due Thailandesi importunano appena la sua donna. Gelosia morbosa, repressa, la sua. Ma sarà l’unico ad accorgersi sin dall’inizio del pericolo corso mettendosi contro tutta Bangkok. E sarà l’unico, paradossalmente, a sacrificarsi per ripristinare le gerarchie. Un eroe intellettuale, in un mondo manesco e di ben altro metro di valutazione. Cui cerca comunque di adeguarsi, per complesso di inferiorità nei confronti del fratello morto e per profondo amore passionale nei confronti della madre. E quest’ultimo risulta essere un personaggio gretto, agli antipodi rispetto all’ideale di genitrice perfetta, portavoce di un assetto familiare ormai alla deriva, sin troppo progressista e matriarcale. Che non ama a dovere il secondogenito perché meno sessualmente dotato del primo, perché meno sessualmente virile. Secondogenito di cui sfrutta, tuttavia, l’iniziale mancanza di personalità, conducendolo ad uccidere il marito. E la maturità di Refn risiede proprio nell’aver proposto il complesso edipico in maniera completamente diversa e insolita. Infatti in questo film esso non si serve di un modesto erotismo per venir fuori, ma di una vera e propria mai celata ed estrema tensione sessuale tra madre e figli. Ma quando la madre (interpretata da una superba Scott Thomas) morirà per mano di Chang, il figlio dovrà rendere conto ad una divinità superiore e accantonare l’idea (già in lui fragile) di vendicare, a sua volta, la vendetta. Ed ecco allora la scena più potente e struggente del film, la quale, se esistesse un cinema un tantino più meritocratico, diventerebbe cult: Julian, il personaggio interpretato da Gosling, porge le sue mani perché Chang ne faccia ciò che vuole, affinché gli vengano mozzate. La violenza catartica è il prezzo per la libertà. Perché capace di proliferare omogeneamente la giustizia. E a farne le spese sono una parte del corpo emblema della nostra presunta libertà di agire, dimenarci, lottare. Per intenderci: quelle mani gli servivano ben poco, perché impossibilitate, già dal principio del film, a far godere l’uomo, mortificate nella loro essenza. Da annali, a riguardo, la scena in cui la giovane Thailandese si masturba davanti agli occhi di Gosling senza che questo possa reagire con altrettanta foga sessuale, perché con le mani legate alla sedia. Le mani dunque. Perennemente da Refn inquadrate, che divengono strumento dell’ira abortita ed implosa; simbolo di peccato, illusione e conseguente disillusione, inerzia, fallacia, impotenza, frustrazione, perdizione.

Giù queste mani da Caino, verrebbe da dire allora. Ma Caino è chi crede di poter applicare un certo stile di vita presso un altro popolo, non considerando le conseguenze che questo strafottente meccanismo ha in serbo. Anche nefaste, apparentemente disumane, ma necessarie, affinché il corpo estraneo venga estromesso da un organismo ad esso allergico. E l’Oriente risulta essere profondamente intollerante a noi Occidentali. Facciamocene una ragione! Anche e soprattutto ora, periodo in cui è in corso l’ennesimo intervento dei macellai statunitensi in Medioriente (che assume sempre più le fattezze di Chang). E tra un delirio di onnipotenza e la somministrazione quotidiana per endovena di una certa dose di esterofobia (solamente verso tizi con barba pronunciata, sottotitolati, molto sommariamente, Isis), chiediamoci pure il perché di questo rigetto. Altrimenti l’America e l’Occidente tutto rischiano di collassare vestendo i panni degli eroi indiscussi. Sarebbe ingiusto, immeritato.

Gabriele Santoro

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LA GENTE CHE STA BENE

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La gente che sta bene è una commedia caustica e brillante, ambientata in una Milano canicolare, popolata da un’umanità alla ricerca disperata di un modo per stare a galla – o quantomeno di un parcheggio vicino al ristorante – che racconta con spietata ironia il ghigno di un uomo che, giorno dopo giorno, ha sempre meno motivi per ridere. Nel film, Claudio Bisio interpreta “Giuseppe Sobreroni, un avvocato d’affari tra Milano e Londra – racconta Claudio Bisio – un narcisista, un mezzo bastardo che sguazza nel carrierismo più spinto ma finisce in crisi, preda delle sue fragilità. Una bella parte.”

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